mercoledì 23 dicembre 2015

BUON NATALE CON IL PANETTONE ARTIGIANALE VALTELLINESE




Da diversi anni in molte pasticcerie della provincia di Sondrio si producono panettoni artigianali  di ottima qualità. Prodotti presentati in invitanti confezioni che hanno solo un piccolo difetto: costano molto di più rispetto a quelli acquistabili nei supermercati.  
Quale scegliere? E’ giustificata questa differenza di prezzo?

Va subito precisato che il Decreto 22 luglio 2005 del Ministero delle Attività Produttive che disciplina la produzione e la  vendita del panettone non fa distinzione tra i due prodotti e cita:
 


Art. 1.

Panettone
1. La denominazione «panettone» è riservata al prodotto dolciario da forno a pasta morbida, ottenuto per fermentazione naturale da pasta acida, di forma a base rotonda con crosta superiore screpolata e tagliata in modo caratteristico, di struttura soffice ad alveolatura allungata e aroma tipico di lievitazione a pasta acida.
2. Salvo quanto previsto all'art. 7, l'impasto del panettone contiene i seguenti ingredienti:
a) farina di frumento;

b) zucchero;
c) uova di gallina di categoria «A» o tuorlo d'uovo, o entrambi, in quantita' tali da garantire non meno del quattro per cento in tuorlo;
d) materia grassa butirrica, in quantità non inferiore al sedici per cento;
e) uvetta e scorze di agrumi canditi, in quantità non inferiore al venti per cento;
f) lievito naturale costituito da pasta acida;

g) sale.
3. E' facoltà del produttore aggiungere anche i seguenti ingredienti:

a) latte e derivati;
b) miele;
c) malto;
d) burro di cacao;
e) zuccheri;
f) lievito avente i requisiti di cui all'art. 8 del decreto del Presidente della Repubblica 30 novembre 1998, n. 502, fino al limite dell'un per cento;
g) aromi naturali e naturali identici;
h) emulsionanti;
i) il conservante acido sorbico;
j) il conservante sorbato di potassio.

Art. 7.

Prodotti speciali e arricchiti
1. In deroga a quanto previsto all'art. 1, comma 2, l'impasto base del panettone può essere caratterizzato dall'assenza di uvetta o scorze di agrumi canditi o di entrambi.
2. E' in facoltà del produttore aggiungere al panettone, al pandoro e alla colomba: farciture, bagne, coperture, glassature, decorazioni e frutta, nonchè altri ingredienti caratterizzanti, ad eccezione di altri grassi diversi dal burro. Il prodotto così finito contiene almeno il cinquanta per cento dell'impasto base di cui ai commi 2 e 3 degli articoli 1, 2 e 3, calcolato sul peso del prodotto finito.


Se il decreto non differenzia le due produzioni è però evidente che tra il panettone artigianale e quello industriale le diversità ci sono. Non solo nei prezzi. I costi  alti  dei primi dipendono generalmente  dall’eccellenza delle materie prime utilizzate. 

La qualità del burro per esempio diversifica sicuramente l’aroma finale del prodotto, così come la qualità delle uova o della frutta candita permette di aumentare il profumo senza dover aggiungere  aromi naturali e artificiali.

Ma poi non possiamo dimenticare l’elevato rapporto uomo/tempo/produzione.
Il processo produttivo del panettone è di circa 30 ore, una lavorazione totalmente manuale incide notevolmente sul costo e spesso le lavorazioni artigianali  richiedono tempi  più lunghi proprio per migliorare la sofficità del prodotto.
Infine la freschezza, l’elemento sicuramente più importante: i panettoni industriali iniziano ad essere prodotti ad agosto, mentre quelli artigianali sono prodotti e subito venduti.
 
Come si può vedere dal decreto sopra riportato ci sono molti ingredienti che possono essere aggiunti. Generalmente sono quelli che permettono una maggiore conservabilità o un miglioramento della qualità gusto/olfattiva. Va anche  segnalato che il decreto definisce gli ingredienti dell’impasto, che come dice l’articolo 7 deve essere almeno il 50 per cento  del totale, ma non stabilisce gli ingredienti possibili per la produzione di  farciture o glassature.

Panettoni con quasi il cinquanta per cento  di prodotti diversi dall’impasto, poco hanno  a vedere con il prodotto classico. Industrialmente gli ingredienti di farciture e glassature   costano meno di quelli utilizzati nell'impasto e il loro utilizzo è  purtroppo normato da altri decreti.
Così è possibile trovare in un panettone anche grassi vegetali, come l’olio di palma, ingredienti vietati dal decreto 22 luglio 2005.   E allora?  Sempre massima attenzione all’etichetta che obbligatoriamente deve elencare tutti gli ingredienti presenti nel prodotto  sia dell’impasto che delle farciture, cercando di evitare  quei panettoni con lunghi elenchi di ingredienti.

Generalmente i panettoni artigianali hanno un aspetto più invitante, sono molto soffici, gli  ingredienti sono più genuini, spesso a km zero, non contengono  conservanti e  non hanno bisogno di differenziarsi con farciture varie per essere appetiti dal consumatore. 
Cosa c’è allora di meglio di una fetta di un panettone classico, artigianale, appoggiata su un piattino, dove i colore aranciato della frutta candita e il violaceo della uvetta sultanina spiccano tra il colore quasi d’orato di un impasto fatto da ingredienti di qualità? 
Mettendo sotto il naso quel pezzettino di panettone sentiremo  una nota leggera di burro e in bocca la sofficità della pasta si miscelerà alla freschezza dei canditi e alla  piacevole sensazione fruttata dell’uvetta.
Vi ho convinti? Sì?
Allora quando entrate nella vostra pasticceria di fiducia, e vedete il panettone artigianale del vostro panettiere,  prendetelo fra le mani, leggete l’etichetta, troverete pochi ingredienti. Acquistatelo tranquilli, anche se costa un po' di più, a casa sarete sicuramente ripagati dalle sensazioni di piacevolezza che proverete.

Se  passate da Grosio, vi consiglio di parcheggiare in piazza del comune ed entrare nel piccolo negozio “ antichi sapori”  che si affaccia sulla piazza.
Il vostro sguardo  si perderà subito  nei prodotti da forno, i biscottini di saraceno, morbidi di perfette friabilità,  la bresadella, la bisciola,  il curnat, la classica  torta di grano saraceno, o una crostata di grana saraceno fatta con la ricotta. Ma su tutti primeggerà un panettone artigianale. Il  “panettone grosino”  fatto  con il lievito madre che gli conferisce una sofficità particolare e che rispetto al classico milanese sostituisce i canditi con noci e scaglie di cioccolato.
Dietro quei prodotti e soprattutto dietro quel panettone c’è Mattia, giovane laureato brillantemente  in agraria che ha preferito abbandonare i libri  di agronomia e zootecnia  per  seguire una passione che aveva da bambino quando aiutava la mamma a fare le torte.  Un corso alla Casta Alimenti di Brescia per diventare pasticcere qualificato, continui aggiornamenti in brevi corsi di biscotteria e  finalmente l’apertura del  panificio a Grosotto per ricercare e sperimentare  prodotti nuovi da proporre ai clienti nel negozio che si affaccia sulla piazza di Grosio.
Per il Natale 2015  Mattia ha sperimentato un nuovo panettone: il cioko arancia, gustoso panettone con pezzi di puro cioccolato fondente e al latte e cubetti di arancia. Sicuramente da provare.
Buon Natale a tutti.
 
 



martedì 17 novembre 2015

IL MATUSC, UN PEZZO DI STORIA



Quattordici forme di Matüsc hanno partecipato alla 16° edizione del concorso “Matüsc di Barilocc”, tenutasi sabato 14 novembre ad Albaredo organizzata dalla proloco di Albaredo all'interno della manifestazione " I colori del Bitto". Quattordici agricoltori/casari che ancora producono nei maggenghi di Albaredo un formaggio particolare, autentico: il tipico prodotto di un’agricoltura sommersa, familiare, microaziendale, derivante da un’utilizzazione razionale del maggengo.
Vincitore del concorso è Ivo Mazzoni del magggengo Piazz, ma soprattutto vincitore è un formaggio a latte crudo che rappresenta una parte della storia casearia della nostra valle.
Formaggio antichissimo il cui nome potrebbe derivare da matte, parola tedesca che significa telo, ma qualcuno fa risalire il nome a matto, un latte matto, troppo magro.
 
Il Matüsc di Barilocc è classificabile a livello storico come un formaggio prodotto unicamente per l’autoconsumo familiare, nei maggenghi del territorio di Albaredo, i nuclei di baite sui versanti di mezza montagna. Qui molta gente del paese trascorreva i mesi primaverili e autunnali dell’anno, prima e dopo la pratica dell’alpeggio, con pochissimo bestiame. A differenza dell’alpeggio, dove il numero elevato del bestiame permetteva di avere a disposizione una notevole quantità di latte sufficiente per produrre quotidianamente due lavorazioni di Bitto, nel maggengo il quantitativo giornaliero di latte era notevolmente inferiore. Il latte era quindi portato nella “budülera”, fino al raggiungimento di una quantità adeguata per poterlo trasformare in Matüsc, dopo un’opportuna e generosa scrematura per produrre il burro.

La budülera era un piccolo edificio in pietra il cui pavimento era attraversato da un piccolo canale dove scorreva l’acqua. Era costruito in prossimità di sorgenti o di piccoli corsi d’acqua. Qui erano messi delle grosse conche in rame, appoggiate sull’acqua corrente che permetteva la conservazione del latte e nello stesso tempo ne permetteva l’affioramento della crema. La scrematura era fatta ovviamente a mano e la sfioratura della panna era moto pesante per recuperare il più possibile panna. Il burro era un prodotto di elezione dell’attività casearia valtellinese che all’inizio ‘900 aveva un prezzo di circa il 30% superiore a un formaggio Bitto di buona qualità e che era accessibile unicamente alle famiglie più ricche.

E ancora oggi, nella valle di Albaredo, non solo Bitto, ma anche questo “piccolo” formaggio che tra l’altro ha avuto il riconoscimento regionale di PAT (prodotto agroalimentare tradizionale) e che è apprezzato per le sue caratteristiche organolettiche, in particolare per il basso contenuto di grasso derivante da una forte scrematura del latte.
Un formaggio che potrebbe essere valorizzato come un formaggio dietetico, vista la sua tradizione di formaggio povero, fatto con un latte il più possibile magro per poter produrre anche quel mezzo chilo di burro che era subito venduto per poter avere qualche soldo.
Un formaggio la cui valorizzazione permetterà la rivalutazione dei maggenghi, territori sempre più in via di abbandono, che invece qui, in questa valle, godono ancora dell’apprezzabile presenza dei contadini e soprattutto dello sfalcio dell’erba di montagna utilizzata per l’alimentazione del bestiame presente.
 
P.S. A questo formaggio è stato dedicato anche un sentiero, il Sentiero del Matüsc, che consente di toccare i più tipici maggenghi e alpeggi legati alla sua produzione e che ha uno sviluppo ad anello partendo da Albaredo. Descrizione dettagliata del sentiero su: www.paesidivaltellina.it
 
La foto del maggengo di Baitridana è di Massimo Dei Cas   da   www.paesidivaltellina.it

 

lunedì 28 settembre 2015

UNA FAMIGLIA UNITA NEL NOME DELLA TRADIZIONE


Azienda Pizzo Scalino.
Già nella scelta del nome c’è sicuramente il desiderio di valorizzare un luogo, una valle: la Valmalenco, ricca di pascoli, un territorio dove la vitalità agricola è particolarmente presente. 
Azienda Pizzo Scalino della famiglia Nani con padre Leonardo, mamma Carla, i figli Giulia, Francesco, Ida, Cristina… tutti uniti per la produzione di un latte di qualità, condizione indispensabile per creare formaggi che rispettano la vera tradizione casearia della valle.

La stalla, da poco realizzata lontano dal paese, è il regno di Francesco, giovane perito agrario. Ci sono settanta vacche, solo Brune “… perché rappresentano la nostra storia, la nostra tradizione, perché in alpeggio sono le migliori e allora che motivo c’è di cambiare razza? Per avere un po’ più di latte? Ma poi la qualità? Il latte delle brune è sempre stato il migliore per la produzione dei formaggi di montagna soprattutto per i valori delle proteine, dei grassi, della caseina…”
E alcune di quelle vacche hanno avuto importanti premi e riconoscimenti a diverse edizioni del concorso nazionale delle Brune a Verona, dove Francesco le porta spesso con orgoglio, non tanto per vincere, ma per avere un confronto con altri produttori, amanti delle brune. 

L’alimentazione delle bovine è fatta rigorosamente con foraggi secchi, niente insilati, niente mangimi, solo una miscela di cereali ed erba medica e in estate alcuni giorni nei maggenghi vicino a casa per abituare gli animali all’alimentazione verde e poi via verso l’alpeggio Campagneda, ai piedi del Pizzo Scalino, dove le Brune trovano pascoli ricchi di buonissima erba.

Giulia, la sorella maggiore, la più decisa, la più intraprendente, ma anche la più dolce, è la più socievole della famiglia. È lei la casara, è lei che trasforma il lattre di qualità delle Brune in formaggio, naturalmente sempre e solo utilizzandolo crudo.

Fra tutti il più richiesto è lo scimut, un prodotto caseario legato alla tradizione della transumanza, lo spostamento delle mandrie dal basso in alto fino all’alpeggio permettendo l’utilizzazione delle risorse foraggere in verticale con lo sfruttamento del maggengo, dei pascoli più bassi fino in alto dove la vegetazione termina.
È un formaggio semigrasso, anche magro, ottenuto togliendo la panna che affiora lentamente nelle grandi conche di rame, che può cambiare nella percentuale di grasso in base alla quantità di burro che si vuole produrre.

Nel piccolo caseificio Giulia realizza anche altri formaggi, mozzarelle, latteria, crescenze, yogurt e lo strakkino, (con due K), un formaggio erborinato, fatto a due paste, come si faceva una volta. Un formaggio con un gusto particolare, con una crosta spessa, all’interno della quale lente trasformazioni rendono la pasta morbida, che in bocca crea piacevoli sensazioni di piccantezza abbinati alla dolcezza.

La vendita dei prodotti è fatta nel piccolo spaccio a Lanzada ma Giulia, con lungimiranza, ha cercato di avvicinarsi al mercato ambulante di Sondrio, un mercato chiuso, dove difficilmente si riesce a entrare con un nuovo banco. Giulia con determinazione, presentandosi puntualmente come riserva per accumulare accrediti e tornando spesso a casa senza aver avuto la possibilità di vendere, finalmente, alcuni anni fa, è riuscita ad avere il suo posto il mercoledì e il sabato nel prestigioso mercato.

Ed è bello vederla dietro il suo banchetto tagliare con disinvoltura le forme di formaggio. Lei i formaggi li vende, ma prima li racconta, spiega le differenze di occhiatura, di colore, di consistenza, dà consigli. Racconta la sua valle, il suo alpeggio di Campagneda sotto il Pizzo Scalino, dove è prodotto anche il Bitto.

I mesi estivi in alpeggio per la famiglia Nani sono molto importanti, la ricchezza del pascolo permette di avere foraggi a volontà e tutti partecipano con passione alle pratiche alpestri con produzione di ottimi prodotti richiesti dai clienti che sanno apprezzare la fatica dell’alpeggio: il Bitto, prodotto senza fermenti, utilizzando un latteinnesto naturale prodotto in casa, il burro di alpeggio con una sfumatura di giallo e un profumo di erba di montagna, la ricotta e naturalmente lo scimut d’alpeggio, l’orgoglio di Giulia.

Nel mese di Agosto in collaborazione con il comune di Lanzada, l’azienda organizza anche l'appuntamento “dal bianco latte ", un’occasione per i turisti di trascorrere una giornata in alpeggio a stretto contatto con i caricatori d'alpe per assistere alle tradizionali fasi di lavorazione del latte, dall'accudire la mandria di mucche e vitelli, alla mungitura, per poi passare alla lavorazione del latte fino alla produzione della ricotta.
Un momento importante, soprattutto per i bambini che si muovono tranquilli in mezzo alle vacche e i vitelli, avendo la possibilità di assaggiare i prodotti e magari capire che il latte che bevono tutte le mattine deriva da una mucca che va munta due volte il giorno. Un momento importante per vedere una famiglia unita che passa tre mesi in alpeggio per perpetuare una tradizione agricola che lì, sotto il Pizzo Scalino, è sempre esistita.



 
Az. Agr.  Pizzo Scalino di Nani Leonardo
 via Ronchetti, 425
 LANZADA
 

 
 


martedì 1 settembre 2015

NELLA STALLA IL PROFUMO DI UNA VOLTA



Ventiquattro anni, perito agrario ottenuto all’Istituto Tecnico Agrario di Sondrio, Master di caseificio a Moretta in provincia di Cuneo, un importante riconoscimento ottenuto nel 2014, l’Oscar green 2014 (le dieci migliori giovani esperienze imprenditoriali della Lombardia), ma soprattutto la passione per i formaggi fatti con latte biologico, prodotto nella sua azienda.

Nicola Bongiolatti, titolare dell’azienda agricola “La Taiada” è un giovane agricoltore che finiti gli studi ha rilevato l’azienda dei genitori, continuando una tradizione storica iniziata dai nonni negli anni cinquanta in una stalla di Regoledo, piccola frazione di Berbenno.

Era una stalla con una quindicina di capi. Il latte, munto a mano con il secchio appoggiato sulla lettiera, era portato nella piccola latteria della frazione, dove i nonni a fine mese ritiravano il formaggio in base alla quantità di latte conferito. Erano le stalle dove ci si trovava dopo cena, dove il profumo del fieno si mescolava agli odori degli animali, dello stallatico. Profumi piacevoli di un’alimentazione sana fatta solo con il fieno.
 
Poi nel 1976 il padre di Nicola realizza la nuova stalla con venticinque vacche da latte, diventate cinquanta negli anni novanta, con una produzione di latte conferito alla cooperativa Colavev. Un nuovo traguardo è la certificazione biologica ottenuta nel 1998 e poi nel 2012 Nicola, fresco di studi, subentra nell’azienda con un grande sogno, realizzare un caseificio e uno spaccio di vendita per continuare la scelta biologica del padre, mettere in pratica le conoscenze e abilità maturate nel corso di formazione frequentato a Moretta e soprattutto valorizzare i formaggi di montagna.

Oggi l’azienda ha una produzione in stalla di sette quintali di latte biologico in parte venduto alla latteria di Chiuro e in parte trasformato in formaggi biologici: Valtellina casera DOP, altri formaggi a pasta cotta, formaggi freschi, mozzarelle, yogurt e il Bitto biologico che è prodotto nell’alpeggio di Prà Maslino.

La trasformazione del latte avviene nell’ampio spazio del caseificio, visibile dallo spaccio attraverso una grande vetrata, realizzata per permettere ai clienti di poter seguire le fasi della lavorazione; così il consumatore riesce a vedere la filatura della mozzarella e acquistarla appena estratta dall’acqua bollente.

È bello fermarsi nello spaccio, assaggiare i formaggi e vedere, attraverso il vetro, Nicola che mette nelle fascere la cagliata appena tolta dal siero.

“…Un buon prodotto nasce innanzitutto  dalla materia prima che noi curiamo in ogni dettaglio. Noi non diamo silomais, usiamo fieno. Le vacche sono allevate senza forzature, con una media di diciassette litri di latte al giorno. Le vacche possono arrivano a dodici lattazione, sono sane, pochissime malattie… perché per avere un buon latte, è importante dare pochissimi medicinali...”

Nel corridoio della stalla che separa gli spazi che ospitano le vacche di razza Frisona, Bruna e Pezzata Rossa, tutte derivanti dalla rimonta interna, si vede il fieno pronto per essere consumato dalle vacche integrato con una minima percentuale di cereali, ma soprattutto si sente il profumo del fieno di una volta, profumo delicato, che sa di erba essiccata al sole, di antiche fienagioni.

La quasi totalità del foraggio è prodotta attraverso i tre tagli dell’erba dei molti prati dell’azienda, ma c’è anche il recupero dei maggenghi di Berbenno, dove le manze sono lasciate pascolare libere. Animali che pascolando concimano naturalmente, rompono il cotico erboso e creano le condizioni per la crescita rigogliosa dell’erba.

E poi ci sono gli ottanta giorni in alpeggio per sfruttare una risorsa alimentare preziosa, dove viene prodotto il Bitto DOP con certificazione biologica.

Centottanta ettari di distesa erbosa, dove le vacche pascolano libere, in recinti predisposti quotidianamente, munte anche a mano nella parte più alta dell’alpeggio, dove il latte è lavorato due volte al giorno, dove i pastori utilizzano il tempo libero per la manutenzione dell’alpeggio, dove la giornata inizia alle cinque e mezza e finisce alle dieci di sera.

E Nicola non dimentica la formazione, così l’alpeggio diventa anche un’occasione di crescita professionale per alcuni studenti dell’istituto agrario di Sondrio che trascorrono alcuni mesi come stagisti in alpeggio, lavorando, imparando a mungere a mano, a fare il Bitto e la ricotta, scoprendo cosa sia la vita in alpeggio.

Il Bitto prodotto inizia la stagionatura in alpeggio, in una casera interrata che può contenere cinquecento forme e finisce in varie cantine dislocate nel comune di Berbenno prima di essere poste nella cella o nel bancone del punto vendita, insieme agli altri formaggi biologici.

Per Nicola l’alpeggio è sicuramente importante, lo dimostrano le foto appese alle pareti dello spaccio che raccontano i momenti più importanti della vita trascorsa lassù dove la vita è sicuramente dura, ma la soddisfazione di lavorare un latte diverso, che acquista valore, ne ripaga il sacrificio.

Immagini di visi felici che si alternano ai diplomi di merito degli importanti premi ottenuti in varie edizioni della Mostra del Bitto di Morbegno ma anche al concorso nazionale Grolla d’Oro di Saint Vincent per i migliori formaggi di montagna.

Formaggi biologici, allineati nel bancone dello spaccio, formaggi speciali che assaggiandoli ti lasciano in bocca sensazioni particolari: sapori di una volta, profumi di un tempo che nello spaccio dell’azienda “ La Taiada ” sembra essersi fermato.


Az. Agr. La TAIADA  di Bongiolatti Nicola
str. della Tagliata, 90
BERBENNO

 


sabato 8 agosto 2015

DAL TECNIGRAFO ALLA STALLA


 
A cinque anni Roberto passava già l'estate con i nonni in alpeggio. Baita senza finestre dove i bambini erano costretti ad alzarsi presto, appena il fumo della legna arsa per la lavorazione del latte si espandeva nella baita. Ricordi di fumo ma anche di passione dei nonni per l’alpeggio, passione tramandata al nipote Roberto che ancora oggi porta le sue vacche nello stesso alpeggio:Teggiate.
Siamo sopra Madesimo, un nucleo di baite, dove ai primi del novecento abitavano ancora per tutto l’anno una ventina di persone; baite in sasso, rivestite all’interno di legno, una chiesetta, la chiesetta della Madonna della neve. Alpeggi del Consorzio Alpe Teggiate, con radici antiche di attività che risalgono al 1700, fatte di rispetto del territorio e passione per l’allevamento.
Roberto, classe 1968, ha passato in questi alpeggi tutte le estati della sua giovinezza e le ricorda con affetto, e forse con nostalgia. “…C’era un rispetto quasi sacro del regolamento del consorzio, e le vacche appena caricate erano marchiate con una T di Teggiate sulla schiena. Occorreva porre molta attenzione durante il pascolo, evitando che le vacche non superassero i confini, e pascolassero nei territori degli altri consorzi, Andossi e Monte Spluga. “Se te scapa la vaca in te va nella condenia” e per poterla riavere occorreva pagare una multa…”

Roberto ricorda le regole ferree, ma anche la forte solidarietà, l'aiuto reciproco tra i soci del consorzio, dove le competenze individuali erano messe a disposizione di tutti.
Lasciato l’alpeggio, si tornava nella stalla di Prata Camportaccio, e lì, dopo la scuola, c'era l’aiuto ai genitori nell’azienda portata avanti dalle donne perché gli uomini lavoravano in altri settori. Il nonno muratore e il papà operaio potevano dedicare all’azienda solo il poco tempo libero del sabato e della domenica. Così Roberto ancora studente, deve aiutare la mamma in azienda, nella stalla d’inverno, d’estate in alpeggio.
Dopo il diploma di geometra e alcuni anni come dipendente in uno studio tecnico a Chiavenna, si trova a dover fare una scelta di vita. A causa della morte dei nonni e delle precarie condizioni di salute dei genitori, l’attività dell'azienda diminuisce, il numero delle vacche passa da venti a tre. Troppe poche per continuare.
Roberto allora decide di intensificare l’attività, fino ad abbandonare lo studio tecnico e dedicarsi a tempo pieno alla sua passione: la zootecnia.  Realizza una nuova stalla a stabulazione libera, dove le vacche sono libere, non più “legate” come nella vecchia stalla dei genitori. Ora, le sue vacche sono libere, non solo in alpeggio, ma anche in stalla. Sono più sane, non hanno problemi agli arti, sono anche più produttive. Un lavoro preciso nella selezione, la rimonta interna, un' attenzione particolare all’alimentazione soprattutto al fieno prodotto in azienda ricordando le parole del nonno che diceva sempre “…la fienagione è importantissima, il tempo deve essere assolutamente asciutto, il fieno deve essere completamente secco, quando si porta nel fienile, deve esserci il sole, bisogna lavorarlo poco, muoverlo poco, se no si disfa, deve mantenere la foglia, se si lavora troppo il fieno perde la foglia e rimane solo lo stelo che ha un valore nutritivo molto più basso…. 
Oggi in stalla ci sono venti vacche in lattazione, Brune, Pezzate rosse, una decina di vitelle e manzette, una decina di vitelloni e alcuni maiali, ma soprattutto ci sono le venti erbate di Teggiate che permettono di avere un latte di montagna per produrre il Bitto DOP.
Il latte della stalla è conferito in parte alla latteria di Gordona per la produzione di formaggi a pasta semidura e burro ancora ottenuto per affioramento nelle grandi conche di rame, in parte venduto come latte crudo e in parte trasformato in un piccolo laboratorio in azienda per produrre formaggi freschi, yogurt e gelato.
Il latte crudo è venduto allo spaccio con analisi fatte ogni settimana per garantire al consumatore la massima sicurezza.
Ma manca ancora una fase importante del progetto del giovane imprenditore: la vendita diretta.
 
Roberto decide di ristrutturare e ampliare le antiche costruzioni dell'azienda agricola, cascina, stalla e fienili, mantenendone le caratteristiche originali.  Realizza una struttura agrituristica che offre alcune camere, una vasta scelta di salette per cenare, con forte ambientazione della cultura contadina di un tempo, ma soprattutto un menu particolare per utilizzare i prodotti dell’azienda: gnocchetti di Chiavenna, gnocchetti al sugo di noci con farine di castagne, crespelle con radicchio e bitto, salumi e carni (tagliata, brasato, spezzatino con funghi) preparate con i vitelloni macellati, torte varie, gelato.
L’idea del gelato nasce dopo aver visitato alcune agrigelaterie del Piemonte e del Veneto. Così attrezza un piccolo laboratorio e inizia a produrre gelati artigianali usando il latte della propria azienda e la frutta locale acquistata da aziende vicine. Un’idea vincente che è subito apprezzata dai clienti dell’agriturismo che concludono volentieri la loro cena con il gelato di Roberto.
Ristorazione aperta solo venerdì, sabato e domenica perché “…gli agriturismi non devono fare concorrenza ai ristoranti, devono essere solo un’ occasione per valorizzare i propri prodotti, ma l'attività agricola deve sempre essere prioritaria…”
Da alcuni mesi un ultimo tassello completa il progetto, “la butega di Munt” un piccolo negozio a Chiavenna per la vendita di tutti i prodotti aziendali, formaggi, salumi ma soprattutto lo yogurt che è venduto sfuso.
Ed è subito successo, con diversi clienti che entrano in negozio con il secchiellino per portare a casa lo yogurt fresco di giornata ed il gelato a chilometro zero.
Oggi Roberto si sente soddisfatto, ha realizzato il suo sogno, è contento della scelta di vita fatta a ventitré anni, non rimpiange il tecnigrafo dello studio tecnico di Chiavenna, ama stare nella sua stalla; passa le sere in cucina, sempre però con il pensiero alle sue vacche. E così un sabato sera, mentre tutti i tavoli del suo ristornate sono occupati da clienti che degustano i suoi piatti, deve abbandonare la cucina, per il parto imminente della vacca Pia. Un parto gemellare, due bellissime vitelline, Luna e Stella, una soddisfazione grandissima, che gli fa dimenticare per tutta la notte le pentole con il brasato che ha lasciato sul fuoco della sua cucina.
 AZIENDA AGRICOLA  Paggi Roberto
 azienda agrituristica La CA' VEGIA
Via al piano 6   San Cassiano_-Valchiavenna
 
foto dal sito www.agriturismocavegia.com gentilmente concesse





 
 

sabato 18 luglio 2015

CONTINUIAMO A PRODURRE IL FORMAGGIO CON IL LATTE VERO


La notizia che l’Unione Europea vuole imporre all’Italia la modifica della legge N° 138 dell’11 aprile 1974 (divieto dell’uso del latte in polvere e concentrato nella produzione dei nostri formaggi) ha riempito le pagine dei giornali ed ha mobilitato la Coldiretti  prima in una manifestazione a Roma  e ultimamente in una raccolta firme per dire no alla modifica della legge.

Un no doveroso, importante, a difesa delle piccole aziende agricole ma soprattutto a difesa di una tradizione casearia millenaria che ha permesso all’Italia di avere 48 formaggi a denominazione di origine protetta (Dop) tutelati dall’Unione Europea, superando la Francia ferma a 45 e diventando così leader europeo e mondiale nella produzione casearia di qualità.

Qualità che nei nostri negozi si mischia spesso con altri formaggi fatti anche con latte in polvere provenienti da tutta Europa, soprattutto dalla Germania e dalla Francia o che altre volte non si trova nelle pizzerie dove la mozzarella utilizzata è fatta con l’integrazione del latte in polvere.

Dal punto di vista nutrizionale il latte in polvere è un prodotto sicuro, non dimentichiamo che dopo un’adeguata integrazione diventa anche l’alimento base di tantissimi neonati. In diversi yogurt viene aggiunto per aumentare la consistenza e la densità e nei formaggi per standardizzare il contenuto di grassi e di proteine. 

Ma allora perché tanto scalpore? Perchè tanta paura per questo invito dell’Unione Europea a modificar la nostra legge?

Perché ovviamente il latte in polvere costa meno e permetterebbe alle grosse industrie di poter sostituire in parte il latte liquido permettendo maggior guadagno e creando i presupposti per un abbassamento del prezzo del latte già poco remunerato.

La legge 138 è una legge nazionale importante che ha consentito di tutelare territori montani, promuovere prodotti caseari unici, creare il made in Italy così importante per la nostra economia nazionale.

Acquistare un formaggio italiano vuol dire sceglierlo tra 530 tipologie ( 48 DOP e 487 formaggi tradizionali censiti dalle Regioni italiane) ottenuti secondo metodi mantenuti inalterati nel tempo da generazioni, con caratteristiche particolari derivanti da una diversità di territori, di climi, di pascoli, di razze di animali che producono latte di qualità. Una biodiversità che si riesce sicuramente a percepire mettendo in bocca un pezzetto di quel formaggio. Sono spesso piccole produzioni artigianali fatti da produttori che con sacrifici e determinazione hanno sempre anteposto la qualità alla quantità. Per la maggior parte formaggi a latte crudo, lavorato appena munto, le cui caratteristiche organolettiche riescono a regalare in bocca sensazioni uniche e che ovviamente hanno un costo maggiore rispetto ai formaggi fatti con latte in polvere o con cagliate congelate.


E se è pur vero che l’abolizione della legge 138 non interesserebbe i formaggi DOP, che continuerebbero ad essere prodotti secondo gli specifici disciplinari di produzione, rimane la tutela degli altri 483 formaggi tipici ( 13 della provincia di Sondrio) che potrebbero essere confusi con altri formaggi standardizzati, con sapori uguali prodotti dalle grosse industrie che avrebbero una scorciatoia per produrre formaggi non preoccupandosi del contesto agricolo territoriale, riuscendo ad aver un latte a un prezzo più basso. E facilmente questi formaggi andrebbero a mischiarsi con i nostri prodotti artigianali, creando confusione tra i consumatori che non sempre capirebbero i motivi della differenza di prezzo.

Già oggi sugli scaffali dei supermercati si trova di tutto, formaggi proveniente dall’estero d’indubbia qualità, con sapori indefiniti, omologati, appiattiti qualitativamente, che hanno l’unico pregio di costare poco.

Non c’è un’etichetta chiara che tuteli il consumatore, che dichiari gli ingredienti utilizzati per la produzione. Si può solo capire la provenienza del prodotto attraverso la lettura del  bollino CEE, il piccolo bollino ovale stampato sulle confezioni, che indica la nazione dove risiede lo stabilimento di produzione (es. IT = Italia), seguito dal codice della Regione (es. 01 = Piemonte, 02 = Val d’Aosta 03 = Lombardia, 05 = Veneto).

Se il formaggio è fatto con una cagliata congelata proveniente dalla Polonia piuttosto che fatta anche con latte in polvere il consumatore non può saperlo.

Ma se nel bollino ovale il consumatore vede la scritta IT sa che quel formaggio è fatto con latte vero, perché in Italia la legge 138 vieta l’utilizzazione di latte in polvere e latti concentrati.

Un lavoro fatto con cura, seguendo una tradizione millenaria, da agricoltori che hanno il diritto di poter continuare a produrre e vendere a un prezzo equo i propri prodotti che generalmente non si trovano nei discount, ma si trovano negli spacci aziendali, nei mercati a chilometro zero, nei piccoli negozi di paese dove il produttore è a contatto diretto con il consumatore, dove può far assaggiare, raccontare i saperi che dietro quel formaggio ci sono.

E allora, con la legge 138, quella piccola scritta IT diventa una garanzia per il consumatore permettendogli di scegliere e soprattutto sostenere un territorio, un insieme di agricoltori che producono ancora in modo tradizionale, puntando sulla qualità del prodotto e non sulla quantità. 

Una seria politica agricola europea dovrebbe cercare di valorizzare queste piccole produzioni, e non cercare di cancellarle con leggi che aiutano i business della quantità permettendo l’immissione sul mercato di poco costose produzioni industriali standardizzate.

Una seria politica agricola comunitaria dovrebbe cercare di promuovere un’informazione corretta tra i consumatori imponendo un’etichettatura precisa che specifichi tutti gli ingredienti utilizzati nella produzione del latte.

E se oggi in Valtellina ci sono ancora 63 alpeggi caricati da alpeggiatori anche giovani (21 su 63 hanno meno di 35 anni) con 5.700 capi che si nutrono anche per 90 giorno dell’erba di 17.000 ettari di pascolo vuol dire che la cultura casearia nel nostro territorio è ancora radicata e c’è ancora la volontà di una biodiversità che può essere mantenuta solo con la legge 138.


FIRMA ANCHE TU

la petizione portata avanti da Coldiretti, condivisa in provincia di Sondrio anche da Confartigianato e Confindustria, contro la liberazione, da parte dell’Unione Europea, all’utilizzo di latte in polvere nelle produzioni casearie.

 Nella sede di Coldiretti o in quella di Confartigianato si può già sottoscrivere la petizione contro l’utilizzazione del latte in polvere nelle produzioni casearie. Prossimamente si potrà farlo anche in Confindustria e presso gli stand appositamente allestiti nei mercati della provincia



 

domenica 21 giugno 2015

UN TEMPO ERANO LE RANE, OGGI LE TROTE







Era la Rogia de renek, la roggia delle rane, ma Guido, il padre di Luciana, ci vide subito la possibilità di creare qualche cosa di nuovo, un’ integrazione di reddito al suo stipendio di muratore. L’acqua era perfettamente pulita, limpida, usciva dalla rocce della Cartonega per tutto l’anno con la stessa portata, con una temperatura da tre a dodici gradi.
Siamo negli anni settanta, Guido acquista il terreno, lo disbosca dalla rigogliosa vegetazione, costruisce alcune vasche, e ci mette un centinaio di trotelle per iniziare un’ attività pochissimo conosciuta in Valtellina: l’ittiocoltura.

Attività soprattutto estiva, per rifornire i molti alberghi della valle, in particolare ai bagni di Masino, che inseriscono nei loro menu il pesce fresco della valle che ha il sapore del pesce pescato nel torrente Masino. La figlia Luciana, allora ancora bambina, aiuta il padre, con orgoglio, con passione.

Poi Guido per motivi di salute è costretto a chiudere l’attività e le vasche lentamente si ricoprono di alberi che vicino all’acqua trovano subito la possibilità di crescere rigogliosi.
Luciana passa di lì tutti i giorni, assiste al lento degrado, guarda con nostalgia l’acqua libera che sgorga naturalmente nella sua proprietà. in mezzo ad una vegetazione che nasconde le vasche e finalmente nel 2005 con l’aiuto del marito Diego decide di ripristinare la vecchia itticoltura.

Nuovo disboscamento, ricostruzione delle vasche, realizzazione di un piccolo laboratorio per la pulizia del pesce prima della vendita e riempimento delle vasche con le trotelle di 50 grammi, per farle crescere fino a 250 grammi prima di metterle in vendita, dopo averle tenute a digiuno per quindici giorni al fine di purificarne l’intestino.
Oggi l’azienda ha quattro vasche, dove le trote vengono divise secondo i tempi di accrescimento e un laghetto dove è possibile pescare. L’acqua limpida e pura scorre piano e permette ai visitatori di vedere i pesci muoversi agilmente, indice della qualità dell’acqua.

Luciana e Diego lavorano qui a tempo pieno dedicandosi all’alimentazione delle trote, con farine vegetali, integrata dagli scarti della pulizia dei pesci. Prodotti naturali, assolutamente esenti da OGM, senza mai somministrazione di medicinali o antibiotici per salvaguardare al massimo la qualità del prodotto.Tutto il processo di allevamento e soprattutto la pulizia, viene eseguita a mano, con una cura particolare, cercando di creare l’habitat più idoneo per l’ accrescimento delle trote, senza mai utilizzare detersivi, solo lo spazzolone. Non manca qualche bagno involontario nelle vasche per la perdita di equilibrio camminando sui bordi stretti delle vasche.
E così le trote iridate o salmonate dl Luciana, sono pronte per essere vendute, per essere apprezzate per il sapore particolare, pulito. Sapore di “pescato” non di terra come le trote allevate in acque quasi stagnanti.

La vendita è la fase che richiede più tempo. Luciana e Diego hanno trovato nei mercati di paese la loro principale occasione di vendita. Grazie anche a Campagna Amica della Coldiretti, tutti i giorni sono nelle piazze dei paesi della Valtellina ed il sabato in Brianza, a Mariano Comenze e a Lomazzo, dove le trote della Valnasino diventano il simbolo dell’acqua limpida e pulita della valle.

La scelta dei mercati è stata vincente, anche se inizialmente un po’ difficoltosa per crearsi una clientela, per riuscire a conquistare la fiducia dei consumatori. Oggi il grosso del prodotto viene preparato alla mattina. Il pesce viene pulito, in parte anche filettato e alle otto le trote di Luciana sono pronte per essere puntualmente vendute ai clienti dei mercati paesani. D’estate c’è anche la vendita diretta, presso le vasche, con i bambini che pescano.
Luciana pensa anche al futuro, la possibilità di affumicare le trote salmonate e confezionarle sottovuoto, per avere un prodotto nuovo, diverso, che già alcuni clienti le chiedono e poi l’ampliamento delle zone del laghetto con la creazione di spazi ricreativi con barbecue liberi, dove i turisti dopo aver acquistato il pesce lo possano anche cucinare e consumere in mezzo alla natura selvaggia della valle.

Ma per ora si accontenta di stare dietro il banchetto nei vari mercati, a raccontare il suo pesce, a regalare ricette per farlo valorizzare maggiormente per non perderne il valore nutritivo, ma soprattutto a raccontare la sua valle dove una volta venivano pescate le miglior trote della Valtellina com’è riportato in “Andar per crotti, ” scritto nel 1952 da Emilio Giani de Valpo, noto gastronomo degli anni cinquanta:

“…ci fermammo alla rustica Osteria del Baffo. La robusta ostessa ci serve, con il generoso vino di Traona, decantato dal Bandello, i funghi trifolati, con la sola polenta gialla, e poi le salmerine del torrente Masino: trotelle, panciutelle, argentee, punteggiate di rosso che non nuotano più nelle limpide acque del torrente, ma in abbondante burro appena fritto, tutt’oro. Abbiamo decretato essere queste le più saporite trotelle della Valtellina, pregio che è loro dato dal vivere in acqua sempre limpida ...”


Azienda Agricola:
Piscicoltura Ciappini Luciana

Via Bloc 13 Cataeggio-Valmasino



sabato 30 maggio 2015

L'HEIDI DELLA VALTARTANO

 
Si chiama Raffaella e all'età di ventotto anni, è riuscita a realizzare il sogno della sua vita: gestire un’azienda in cui allevare capre di razza camosciata e poter vivere nella sua Val Tartano a contatto diretto con la natura, come faceva da bambina quando a sei anni ha cominciato a passare l’estate in alpeggio.


E lì a Postareccio, estate dopo estate, ha imparato a mungere le capre quasi per gioco, poi le mucche, da cascin è diventata pastore, con il compito sempre più gravoso di mungere anche una quindicina di vacche due volte il giorno.
 La passione degli animali la porta in Svizzera, in valle di Blenio, dove per quattro stagioni con l’amica Emilia, lavora in un alpeggio con quaranta vacche da latte e quaranta vacche nutrici. Le due ragazze, sole, si occupano di tutta l’azienda, custodiscono e mungono le vacche, fanno il formaggio, il burro, gestiscono la casera. In seguito, per migliorare le conoscenze casearie,
Raffaella decide di frequentare un corso presso la scuola agraria di Mezzena in Canton Ticino e finalmente è pronta a ritornare nella sua valle, carica di esperienze e di conoscenze di tecniche moderne.

L’amore per le capre, la scelta di occuparsi di animali meno impegnativi e forse più gestibili per una ragazza, la portano a collaborare con Celeste nella gestione di un allevamento di capre di razza camosciata che dopo alcuni anni Raffaella acquista e mette nella sua nuova stalla costruita in località Bedula.

Una stalla moderna, con sala mungitura, caseificio e locale per la stagionatura dei formaggi. Una grande soddisfazione anche se il lavoro è tanto, dodici ore al giorno durante il periodo di lattazione. Lunghe giornate che iniziano alle cinque di mattina e terminano alle otto di sera. Ma la fatica è ripagata dall’apprezzamento dei clienti che provano i prodotti e li riacquistano. “Sem Caurèer” è il nome dell’azienda, siamo caprai, quasi a esorcizzare quella professione che un tempo era segno di povertà, di fame, di miseria. A Tartano tutte le famiglie avevano le capre, solo le più benestanti avevano qualche mucca.

Anche nonna Ines aveva le capre, era bravissima a fare il formaggio, tanto che ancora oggi a Tartano tutti ricordano “ gli stracchini della Ines”. Raffaella non ha però imparato da lei, era ancora piccola quando la nonna è morta, ma forse, è proprio nel suo ricordo che ha provato e sperimentato nuove lavorazioni nel suo lindo e piccolo caseificio adiacente alla stalla.
La Bedula è una piccola località tra Campo e Tartano, sei ettari di terreno molto ripido, dove le capre di Raffaella sono libere di muoversi alla ricerca delle foglie tenere, ma sempre pronte a rientrare nella stalla per la mungitura, per nutrirsi della razione alimentare bilanciata fatta di fieno e un misto di cereali costituito da granoturco, soia, crusca, farinaccio di frumento.

Una stalla moderna, costruita dieci anni fa, ordinata, dove gli animali, puliti, pettinati, vivono tranquilli coccolati dall’amore della proprietaria: quarantacinque capre da latte prevalentemente di razza camosciata e altri sette capi derivanti da incroci tra la Camosciata e la Frisa Valtellinese. Ci sono poi due becchi, acquistati o scambiati con altre aziende per evitare la consanguineità, che sono tenuti isolati fino ad agosto quando avviene la fecondazione di tutte le capre presenti nella stalla.

Lei le conosce tutte, le chiama per nome, le accarezza, parla con loro. Nomi particolari, che iniziano con la stessa lettera per tutto un anno e che cambia l’anno dopo, Così Aurora ha nove anni, Bianca otto, Domitilla e Dumega sei, Edera ed Europa cinque, Foglia quattro, fino ad arrivare alle nascite del 2014: Lucrezia, Lucilla, Lapis.

Quando entri in stalla, ti stupisci subito per l’ordine e la pulizia, senti la musica di una radio sempre accesa “…perché alle capre la musica piace…”, ti guardi in giro e capisci che la stalla è stata costruita sulla roccia, che spunta ancora da una parete ed è utilizzata dagli animali per sostarvi contenti. Sopra la roccia, per nascondere il cemento di una lunga parete, si allarga un grande dipinto rappresentante un pascolo alpino con cime innevate, prati verdi con fiori, caprette, Haidi e Peter, i personaggi del famoso cartone animato, che corrono felici nell’erba verde. Guardi il grande affresco murale e non riesci quasi a capire dove finisce il dipinto e dove inizia la lettiera del box con le capre di Raffaella.

Una rampa di legno permette agli animali di accedere alla moderna sala mungitura, dove è possibile condurre otto capre per volta. Anche qui c’è la massima pulizia, fondamentale per la buona riuscita dei formaggi. E poi entri nel caseificio e non puoi fare a meno di pensare che l’arte di fare il formaggio, portata avanti da una donna è sicuramente garanzia di risultati eccezionali. Tutto è perfetto, pulito, tank e caldaia luccicanti, così il pavimento piastrellato.

È qui che Raffaella prepara e sperimenta i suoi formaggi: caprini freschi, caciotte stagionate, un ottimo erborinato, yogurt preparato una volta la settimana e confezionato in vasetti di vetro, la ricotta e, da pochi mesi, anche un formaggio tipo grana, con una stagionatura minima di dodici mesi.

Ci sono poi i salumi e la carne derivanti dalla macellazione dei capi che non entrano in produzione o di quelli che hanno terminato la lattazione. Raffaella non ha i locali adeguati per la macellazione e porta gli animali vivi a un macellaio locale che trasforma la carne in ottimi salumi o in tagli pronti per la cucina. Del resto, lei, non riuscirebbe mai a macellare una capretta che ha visto nascere e crescere nella sua stalla.

I prodotti dell’azienda “Sem Caurèer “per la maggior parte sono venduti nei ristoranti e nei piccoli negozi della bassa Valtellina, ma la nostra Heidi preferirebbe venderli nel suo piccolo spaccio, per avere un contatto diretto con i suoi clienti, per raccontare la storia dei suoi prodotti e mostrare con orgoglio la sua azienda costruita con tanti sacrifici e passione.

Così per meglio pubblicizzare e valorizzare i prodotti aziendali, “Sem Caurèer” diventa anche azienda agrituristica: un bel locale luminoso, arredamento essenziale, con menù rigorosamente preparato con i prodotti dell’azienda: ravioli ripieni di ricotta, tagliolini al ragù di capra, salumi, capretto in guazzetto, spezzatino e naturalmente la selezione dei suoi formaggi. Piatti semplici, abbondanti, gustosi, che raccontano la passione per un animale povero. E ai clienti, alla fine del pasto, il consiglio di una passeggiata attraverso i sentieri della Bedula da dove si può ammirare anche il lago di Como, e dove sicuramente si potranno incontrare le caprette di Haidi che …ti fanno ciao.



 
Az. Agr. Bianchiìni Raffaella
Località Bedula
TARTANO
 

 

giovedì 30 aprile 2015

NELLE MENSE SCOLASTICHE SOSTENIAMO I PIATTI POVERI DELLA CULTURA CONTADINA



Sondrio. Su diversi quotidiani la notizia: Pizzoccheri e polenta definiti“ piatti poveri e da contadini, non adatti alle mense di scuole moderne.”
Dispiace leggere queste notizie, dispiace ancor più leggerle a pochi giorni dall’inaugurazione dell’Expo il cui tema principale è: nutrire il pianeta.
“ Nutrire il pianeta” vuol dire soprattutto ridare dignità ai contadini, raccontare le loro storie, le loro fatiche, ma anche raccontare il passato alimentare delle generazioni che ci hanno preceduto, dove la fame era purtroppo una condizione quotidiana di vita e dove una fetta di polenta da mangiare con una mano (nell’altra non sempre c’era una fetta di formaggio o di salame) rappresentava spesso il pasto principale della giornata.
E i bambini queste cose le dovrebbero sapere, il menù della ristorazione dovrebbe diventare anche un’occasione privilegiata di educazione alimentare per raccontare la storia alimentare della nostra valle, per fare sapere come si mangiava un tempo, per non dimenticare, per creare momenti di educazione al consumo consapevole, senza sprechi.
Mentre in molte scuole della provincia di Sondrio gli insegnanti e allievi lavorano su progetti riguardanti l’alimentazione, creando occasioni di conoscenza e di approfondimento sui nostri prodotti agroalimentari, ecco che qualche illuminato genitore vuole cancellare la storia della nostra alimentazione.
Nei primi anni ottanta, giovane funzionario dell’Ufficio alimentazione di Sondrio, in collaborazione con l’Asl (allora USSL) ho seguito un importante progetto di educazione alimentare nelle mense delle scuole materne.
Il progetto prevedeva il coinvolgimento di genitori, insegnanti e cuoche su una scelta più attenta ai menù delle scuole materne.
Erano i tempi in cui ogni scuola materna proponeva menu diversi, spesso squilibrati dal punto di vista nutrizionale, ma soprattutto con scelte di materie prime discutibili quali formaggini confezionati, bastoncini di pesce fritti, oli di semi vari, patatine fritte, merendine confezionate come dolce. O ancora l’utilizzo di tecniche di preparazione deprecabili, come l’uso della friggitrice per cuocere le polpette, l’uso di oli con punti di fumo bassissimi utilizzati per diverse fritture.
Organizzammo in molti paesi della provincia corsi di cucina per cuoche, per genitori, per insegnanti con obiettivi precisi: uniformare il più possibile i vari menù, migliorare la preparazione dei piatti e avere una maggiore attenzione alle materie prime.
Diverse scuole materne diventarono per mesi sedi di corsi di cucina, dove i partecipanti imparavano le tecniche di cucina, i piccoli trucchi per far mangiare le verdure ai bambini, per presentare i piatti in modo diverso, per renderli più appetibili.
I piatti preparati durante i corsi venivano poi inseriti nei vari menù con la condivisione di tutti: genitori, insegnanti, cuoche, responsabili delle scuole materne, e funzionari dell’USSL.
Così s’inserì il Valtellina Casera giovane o lo Scimudin al posto dei formaggini confezionati, le torte di mele o la torta di grano saraceno al posto delle merendine confezionate, la trota o la sogliola al posto dei bastoncini, il risotto con le verdure, gli spaghetti alle vongole…
S’inserirono anche piatti insoliti per una mensa scolastica quali i pizzoccheri e la polenta e spezzatino. I bambini erano felicissimi di queste new entries. Erano piatti unici, una fetta di torta concludeva il pasto con apprezzamento generale di tutti.
La cultura contadina valtellinese era entrata nelle scuole materne e diversi insegnanti iniziarono a utilizzare i piatti del menu come occasione per raccontare ai bambini storie di vita contadina, di mulini, di latterie, di stalle.
Alcune facevano giocare i bambini con i semi di grano saraceno, di mais, della segale, o addirittura creavano delle piccole aiuole all’esterno per far seguire ai bambini la crescita delle varie pianticelle o ancora facevano giocare i bambini con la pasta dei pizzoccheri con piccoli mattarelli di plastica.
Era un modo per raccontare la nostra storia, che purtroppo è anche una storia di povertà, ma ci appartiene e sicuramente non possiamo dimenticare.
E allora ai genitori che hanno definito pizzoccheri e polenta “piatti poveri e da contadini, non adatti alle mense di scuole moderne”, ricordo che è importante nutrire i bambini in modo corretto, tenendo presente l’equilibrio nutrizionale dei singoli menù, ma tutto questo si può fare anche con i piatti della nostra tradizione, dei nostri contadini, utilizzando i prodotti dell’agricoltura del nostro territorio sempre più portata avanti da giovani che credano che nutrire il pianeta possa ancora essere un lavoro dignitoso.