venerdì 30 settembre 2016

IL SENTIERO DEL VINO : OPPORTUNITÀ PER CONOSCERE I VINI DELLA COSTIERA DEI CECH





Parte dalla stazione di Morbegno il pullman che ci porta a Mello per conoscere i vini IGT, l’ Indicazione Geografica Tipica Terrazze Retiche della costiera dei Cech.
Un percorso di circa 2 chilometri, tra vigneti terrazzati, massi erratici, panorami stupendi, antichi borghi.

 E subito, appena si aprono le porte del pullman, ci accoglie il sorriso di Rosalba, socia della cooperativa Terrazze dei Cech: “Siamo a Mello, paese del miele e degli zingari”.
Mentre i nostri occhi si aprono su un bellissimo panorama della bassa valle che si perde nel lago di Como e sulle montagne orobiche con il Legnone in bella vista, Rosalba continua: “Mello, deriva dalla parola latina mel, ossia miele, perché un tempo qui c’erano tantissime api e si produceva un ottimo miele. Zingari, perché i Melàt, cioè gli abitanti di Mello , nel passato per cercarsi i pascoli per i loro bestiame andavano ovunque spingendosi fino in Valchiavenna, nella Valle dei Ratti, in Val Codera ed in  Val Masino 
dove riuscirono a colonizzare una valle, che prenderà appunto il loro nome, val di Mello.”

Già la val di Mello, oggi conosciutissima per la sua selvaggia bellezza e per le possibilità offerte ad alpinisti e climbers, un tempo era percorsa dei Melat alla ricerca di un po’ di erba nei magri pascoli presenti posti in cima alle vallette laterali, ripide e scoscese.
 
Lionello, un altro socio della cooperativa, si unisce a noi per accompagnarci in questo percorso che da Mello proseguirà scendendo fino a Santa Croce di Civo, per poi risalire fino alla chiesetta di S. Biagio con sei tappe in cantine per la degustazione dei vini della costiera del Cech abbinati a salumi, formaggi e dolci tipici locali.

Il primo tratto, in discesa verso Santa Croce, attraversa un bosco di latifoglie con castani, noccioli, robinie, alte felci nel sottobosco. Poi il bosco si apre. Una casa isolata, con un dipinto a tema religioso, ci racconta la devozione popolare degli abitanti di Civo. Un comune particolare, nel cui territorio sono disseminati tredici campanili, ciascuno con una propria storia da raccontare. Una storia che ci accompagna lungo il piacevole sentiero che ogni tanto si apre su bellissimi panorami della bassa valle con i grossi agglomerati urbani di Morbegno, di Cosio, le montagne delle Orobie. Una storia fatta d’interessanti curiosità come l’etimologia della parola “Cech”, che qualcuno fa risalire a “ciechi” con riferimento ad una lunga resistenza alla conversione al cristianesimo o invece a Franchi che, arrivati dallo Spluga per combattere i Longobardi, si fermarono in questa zona

Ancora nel bosco, i nostri accompagnatori ci fanno notare un grande masso erratico, di epoca glaciale, “ lì sotto si scavava, andando anche in profondità, per costruire locali freschi, che potevano essere utilizzati come cantine per il vino, ma anche per il latte…, i “Casel”, che poi avremo modo di visitarne alcuni, dove assaggeremo il vino della nostra cooperativa”.
Arriviamo alle prime case di Santa Croce e ci appaiono vecchie abitazioni ristrutturate con ballatoi di legno o con ringhiere in ferro, tutte con tetti in piode. Qualche costruzione nuova, sempre con lunghi balconi rivolti a sud, sembrano spuntare dai vigneti terrazzati e, ancora sparsi nel verde, alcuni grandi massi erratici quasi a completare il paesaggio di questi piccoli vigneti, spesso recitanti per difenderli dai cervi che da alcuni anni sono diventati l’incubo dei viticoltori della zona.

Ma i soci della cooperativa non demordano, continuano la tradizione di famiglia: “3000 metri quadrati ereditati dai mio padre 22 anni fa” racconta Rosalba “ la difficile scelta se abbandonare o continuare, ma non si può abbandonare un territorio e così con mio marito abbiamo deciso di continuare un’attività che da anni la mia famiglia portava avanti. Certi anni va bene, riusciamo ad avere una buona produzione, altri come questo, tra grandine, peronospora e cervi purtroppo assisteremo ad una notevole riduzione della produzione.

Lionello mi parla della cooperativa, dell’importanza sociale di una struttura che ha permesso a tutti i soci di vendere l’uva in esubero, di valorizzare un vino che è sempre stato considerato un po’ la cenerentola dell’enologia valtellinese, ma soprattutto la cooperativa  ha permesso il mantenimento dei terrazzamenti già coltivati a vite e il  recupero ove possibile dei terreni incolti. Camminiamo vicino ai filari delle viti, ammirando i bei grappoli di Nebbiolo o di Barbera ormai quasi pronti per essere trasformati in vino e arriviamo alla cantina di Bonetti Silvio, dove assaggiamo un generoso Orgoglio dell’az. Piccapietra di Traona, accompagnato da bresaola e formaggio di latteria.

Nella seconda cantina ci accoglie Davide. Siamo in un’antichissima cantina, anzi in un insieme di sei cantine costruite sotto il masso più grosso dell’intera zona. Le sei cantine, alcune ancora utilizzate, sono state realizzate scavando sotto il crap su livelli differenti.

Cantine che comunicano tra loro con delle finestrelle che permettevano, oltre al ricambio dell'aria, la comunicazione tra i vignaioli occupati nei faticosi lavori della vinificazione.
Davide ci fa notare il numero civico sopra una porta e i tagli orizzontali scavati nella roccia per permettere all’acqua di defluire. Assaggiamo il Sentimento selezione 2012, prodotto con uve selezione dai vigneti "alti" con una vinificazione tradizionale, invecchiato in tonneaux di rovere.
Ottimo vino prodotto con uve Nebbiolo e Barbera dal sapore gradevole, morbido di buona persistenza al palato con buona sapidità. Secondo vino in assaggio il Delor, vino bianco fresco, prodotto con uve a bacca bianca, principalmente Chardonnay. Un nome insolito in omaggio al socio Dell’Oro che ha regalato lo stabile alla cooperativa. Sentimento, Delor, formaggio, pane, bresaola, una fetta di bisciola e via verso un'altra cantina, quella di Bruno Re, ancora sotto un masso erratico, ancora con stretti gradini in sasso che ci portano in profondità per essere accolti da due simpatiche donne vestiti con abiti tradizionali che ci fanno  degustare altri due vini di cantine vicine: Bullium e San Sest , altro formaggio, altri salumi. 

Si riparte. Attraversiamo il centro di S Croce, verso Selvapiana e arriviamo alla sede della cooperativa, orgoglio dei 23 soci che portano le loro uve per produrre circa 20.000 bottiglie l’anno.
Tutto è in ordine: botti di acciaio, in vetroresina, in legno, barrique, una bella saletta di degustazione. Qui  conosciamo gli altri due vini della cooperativa: il Sentimento Barrique, dal sapore particolare, leggermente tostato, prodotto con affinamento in barrique per almeno sei mesi e il Sentimento tradizionale, il vino simbolo della cooperativa, il vino più tradizionale, il più legato alla storia, ai SENTIMENTI  di amore per il territorio.

Paolo, nella cantina del Vecchio Torchio ci accoglie per farci assaggiare altri due vini, ma soprattutto un ottimo miele di castagno, piacevole, aromatico, con un leggerissimo retrogusto amarognolo che si abbina molto bene al casera proposto in assaggio. Un pezzetto di bisciola, un altro sorso di Rupi di S. Sisto della cooperativa Bullium, una veloce visita al vecchio torchio, uno sguardo a un’antica casa costruita sfruttando la possibile aderenza ad un grande masso e via, per il ripido sentiero verso S. Biagio.
 
La cantina della Chiesa con la sua entrata elegante ci aspetta per un ultimo assaggio, ancora Sentimento Tradizionale, e ancora Sentimento Barriqe, sempre accompagnati da prodotti tipici della zona. L’ultimo assaggio. Sicuramente il più significativo, perché consapevole di una storia che si cela dietro quel bicchiere.

E allora mentre i sentori di frutta matura si liberano in bocca, non possiamo che provare un  sentimento di gratitudine per questa popolazione, che è riuscita a mantenere un territorio ancora vivo attraverso una viticoltura eroica che anche il Maestro Olmi ha voluto rappresentare, inserendo nel suo documentario “rupi di vino” alcune immagini girate proprio qui, sulla costiera dei Cech.


Il sentiero del vino si ripete il 2 e 8 ottobre.
Per informazioni e prenotazioni telefonare al Consorzio turistico Porte di Valtellina  tel 0342 601140













lunedì 5 settembre 2016

L' UOMO CHE ACCAREZZAVA I FORMAGGI



L’ultima volta che l’ho visto era seduto sulla panchina all’esterno del suo negozio, con le spalle appoggiate al muro portante della storica bottega, quasi a proteggerla, quasi a non volerla abbandonare, a sostenerla ancora con la sua esperienza.

Seduto in bellavista vicino al fratello Dario, chiacchierava e sorrideva ai tanti conoscenti che si fermavano a salutarlo. Mi sono fermato anch’io e mentre mi parlava, nei suoi occhi ho notato la felicità di poter comunicare ancora con qualcuno, ma anche la rassegnazione di una vita ormai alla conclusione, il meritato riposo, ma forse il desiderio di essere ancora dietro il banco a tagliare il formaggio migliore per i suoi clienti.

Ho sempre avuto un’ammirazione particolare per questo negozio. E qui che per la prima volta ho assaggiato un Bitto di dieci anni.
Erano i primi anni 90. Da poco mi interessavo di formaggi dopo aver frequentato il primo corso ONAF per assaggiatori di formaggio.
Dovevo scrivere un articolo per la rivista “Valtellina Magazine” ed entrambi i fratelli mi avevano accolto calorosamente cercando di spiegarmi in poco tempo tutti i segreti del Bitto.

Mentre mi raccontava i pregi di questo meraviglioso formaggio, Primo, ha preso con delicatezza una forma di Bitto invecchiata, l’ha appoggiata sul tavolo della cantina tenendola in verticale, l’ha accarezzata, poi l’ha appoggiata sul tavolo continuando ad accarezzarne la faccia superiore, invitandomi a sentire la consistenza e la levigatezza della superficie. “ Non tutte le forme sono adatte per essere invecchiate” mi diceva continuando ad accarezzare il formaggio “ bisogna saperle scegliere, bisogna sapere come le vacche sono state alimentate, in quale periodo il latte è stato prodotto, quanto latte di capra è stato usato.”
Lui sapeva scegliere, conosceva tutti gli alpeggi delle valli del Bitto, conosceva tutti i caricatori, sapeva in quale periodo le vacche pascolavano le erbe migliori di quel determinato alpeggio e così poteva scegliere le migliori forme da portare nelle cantine del negozio per iniziare quel rito di stagionatura che iniziava appena le forme arrivavano a Morbegno e che soli li, in quegli anni si potevano trovare.

Già, le famose cantine di "Ciapun", che scendono di due piani per circa 10 metri, dove le migliori forme di Bitto delle valli vicine iniziano la loro stagionatura che può durare anche 10 anni.
Un continuo lavoro di raschiatura, di ribaltamento sia delle forme sia delle assi sulle quali sono poste, di cure particolari, di stagionature, di forme poste in verticale su appositi scaffali, dove ogni tanto vengono ruotate leggermente come per la lavorazione dello champagne.

Le cantine dove la temperatura è per tutto l'anno dagli 8 ai 13/14 gradi, con volte a muratura a secco, con pavimentazioni differenziate (piattoni o ghiaia) a seconda del prodotto da stagionare, perfettamente areate tramite finestre che danno direttamente all'esterno.
Le stesse cantine che durante la guerra venivano utilizzate come rifugio, durante le incursioni aeree, sia dagli abitanti della casa che dai clienti che si trovavano in negozio.
Così mi raccontava mostrandomi con orgoglio gli spazi dove le sue creature si trasformavano lentamente.

Ho un altro piacevole ricordo di Primo. Durante una mostra del Bitto di quegli anni Primo e Dario erano stati invitati per il taglio di una forma di Bitto di dieci anni.
Ricordo uno spazio sotto un tendone, colmo di gente, le telecamere di Raitre che riprendevano l’evento, l’emozione e la sicurezza di Dario e di Primo, le loro muani che accarezzavano la forma, che segnavano per mezzo di un righello e di un coltellino una riga precisa, il silenzio quasi sacro del pubblico e poi il rito di un’arte che non tagliava ma scolpiva la forma fino ad avere due mezze forme perfette e il clamoroso applauso del pubblico.
Ricordo Primo sorridente. Guardava nella telecamera quasi incredulo dell’interesse che aveva suscitato.
Eravamo nei primi anni novanta, quando pochissimi negozi valtellinesi puntavano sulla valorizzazione dell’enogastronomia valtellinese, quando molti piccoli negozi di paese erano già stati chiusi o trasformati secondi i nuovi modelli commerciali dove il il self service aveva annullato il rapporto cliente/ negoziante.

 Ma Primo e Dario non hanno cambiato, hanno continuato a ricevere i lori clienti nella bottega, togliendo dagli scaffali i vari prodotti, incartandoli nelle vecchie carte per alimenti, conversando con loro e tagliando con cura il formaggio richiesto raccontandone le caratteristiche. Con molta lungimiranza avevano creduto nella tradizione, e non hanno mai trasformato il loro negozio. Ma soprattutto hanno creduto nei prodotti di qualità del nostro territorio ,cercando di valorizzarli nel modo migliore, trasformando la bottega in un luogo di rispetto per la cultura contadina e soprattutto per quella casearia.

E così, ancora oggi i figli Alberto e Paolo continuano a gestire la bottega nello stesso modo presentandola ai clienti come un luogo magico dove si respira il sapore degli alpeggi e della vita contadina, dove mobili e suppellettili rustici ed antichi sono utilizzati per esporre la merce.
Un intreccio tra il vecchio e il nuovo, dove nel tipico arredamento del bottegone di una volta
Con i cassetti con i numeri di porcellana dipinti a mano, le vecchie originali antine a vetrina dei vari scaffali trovano posto i migliori prodotti valtellinesi: il miele, la pappa reale e propoli, i funghi, le grappe (secche, aromatiche, giovani, vecchie, al lampone, alla fragola,) i vini delle principali cantine valtellinesi, esposti nelle cantine sotto il negozio, gli amari, i biscotti, le bisciole, le farine gialle o di grano saraceno rigorosamente macinate a pietra,le marmellate, le caramelle dell'Alta Valtellina.
Tutto come una volta. Tutto come quando il negozio era gestito da Emilio e Paolo (padre di Primo e Dario).
Tre generazioni che si sono tramandate quell'amore per la terra ed i suoi prodotti genuini, tre generazioni che hanno trasformato nel tempo la vecchia bottega dell'orologio anche in un piccolo museo dove la cultura contadina trova spazio tra una forma di formaggio, una bottiglia di vino, una bottiglia di grappa.

Ciao Primo, grazie per aver dedicato la tua vita ai prodotti del territorio, ai formaggi delle valli del Bitto, grazie per aver fatto conoscere il nostro territorio a tante persone.