venerdì 23 dicembre 2016

TANTI AUGURI CON IL MATUCHIN

La bisciola  nella storia alimentare valtellinese rappresenta il dolce di Natale, ma soprattutto rappresenta il dono natalizio che generalmente i bambini ricevevano dal padrino del sacramento del  battesimo. In bassa valle, si usava anche impastare il dolce forgiandolo a forma di bambino (il matuchin), per ricordare al figlioccio il giorno del battesimo. Il panificio Gusmeroli di Talamona nel mese di dicembre produce ancora il Matuchin, che propone al consumatore in una confezione elegante adatta per diventare un piacevole regalo da fare ai bambini.
Leggi  il post  
BUON NATALE CON IL DOLCE TIPICO DELLA TRADIZIONE VALTELLINESE 
del 17 dicembre 2014

lunedì 12 dicembre 2016

IN VALTELLINA TORNA LA COLTIVAZIONE DELLA SEGALE


"Segale 100% Valtellina", è il nuovo progetto ideato e promosso dall'Unione del Commercio del Turismo e dei Servizi della provincia di Sondrio, con l'Associazione Panificatori e Pasticceri attiva al suo interno, e da Coldiretti Sondrio.
Si tratta di un progetto sperimentale che per ora ha coinvolto l’azienda agricola Pelacchi Michele e dieci panifici distribuiti in modo omogeneo tra tutta la provincia di Sondrio, dalla Valchiavenna a Livigno.

Il pan de ségêl a forma di ciambella, ottenuto con farina di segale 100% Valtellina sarà prodotto in un periodo limitato, in tutti i weekend (a partire dall’ 8 dicembre 2016) fino al 5 marzo 2017, per diventare in   prospettiva, una volta disponibili maggiori quantitativi di farina, una produzione continuativa.
L’obiettivo è sicuramente ambizioso: reintrodurre e valorizzare un’antica coltura  e produrre un tipo di pane realizzato con f

farina di segale originaria esclusivamente della Valtellina, coltivata in modo naturale senza l’uso di fitofarmaci.
Un pane che rappresenta la nostra storia, l’artigianalità alimentare dei nostri panificatori ma anche le peculiarità nutrizionali di un prodotto particolarmente digeribile ricco di vitamina E, vitamine del gruppo B, sali minerali (calcio, ferro, magnesio e potassio), proteine ad alto valore biologico (aminoacidi essenziali come lisina e treonina), fibra  per il 15%.
Il progetto vuole poi riscoprire e valorizzare una coltura antica e tipica valtellinese che purtroppo nel corso degli anni è stata abbandonata ma che ha occupato un ruolo importante  nella storia alimentare valtellinese anche perché facilmente adattabile ai climi freddi della nostra valle e ottimamente  inseribile nella rotazione agronomica con le patate e il grano saraceno.

Si seminava in autunno, dopo la raccolta delle patate  e si mieteva in estate lasciando il terreno libero per la semina del grano saraceno. In genere il seme utilizzato veniva scelto trai i semi più grossi del raccolto precedente. I semi germinavano prima del gelo invernale e dopo una decina di giorni spuntavano dei fili  verdi/rossicci. I deboli filamenti ai  primi freddi e alle prime brinate del mese di novembre si piegavano adagiandosi sul terreno, pronti ad essere coperti dalla neve durante l’inverno.
Al risveglio primaverile le piantine iniziavano a crescere lentamente e quando erano alte una ventina di centimetri iniziava la pratica della sarchiatura. Era un lavoro faticoso, eseguito quasi sempre dalle donne che operavano con  la schiena ad arco e la testa sempre piegata,  muovendo energicamente il sarchiello con il manico corto.  I possibili giramenti di testa richiedevano spesso il rialzarsi lentamente,  il puntare le mani sui fianchi per non barcollare e ritrovare l'energia per riprendere il lavoro.  

Dopo circa un mese si faceva una nuova pulizia estirpando le erbacce, lentamente per non danneggiare le piantine di segale e poi finalmente lo spettacolo della maturazione: le alte spighe rese pesanti dai chicchi, il rosso dei papaveri, l'azzurro dei fiordalisi.  Bellissimi fiori che non si potevano cogliere. Ai bambini era vietato per paura che potessero danneggiare i sottili steli delle piantine.

Verso il quindici di luglio e fino ai i primi di agosto, a seconda dell'andamento climatico e della esposizione dei campi, si svolgeva la mietitura.
Le donne attrezzate con le falci messorie, entravano nel campo e delicatamente, per non disperdere i chicchi sul terreno, tagliavano alla base gli steli adagiandoli a mazzi sul terreno. Erano gli uomini che si occupavano di formare i covoni, legarli e portarli, caricandoli nelle gerle apposite, nei solai ben arieggiati. I covoni si mettevano in piedi, appoggiati ai muri, con le spighe in alto. Quando i covoni erano essiccati o più precisamente quando i chicchi non erano più scalfibili con l’unghia, era tempo di battitura.  La battitura avveniva in un locale grande, ventilato: l’aia o il solaio.  
I covoni venivano sbattuti su un piano inclinato, spesso una vecchia porta tenuta per questo uso, per far cadere i chicchi più maturi, poi venivano slegati e allineati sul pavimento e battuti con attrezzi speciali. Dopo la prima battitura venivano girati e ribattuti.  I chicchi venivano accumulati in un angolo di volta in volta per evitare che la battitura potesse rovinarli. Era un lavoro polveroso, lungo, faticoso che terminava solo quando nel grande locale si formavano due mucchi distinti di paglia e di chicchi.
La paglia veniva tritata e utilizzata per l’alimentazione del bestiame o anche per riempire i sacconi del letto, i pagliericci usati come materassi.
 I chicchi  necessitavano invece della  vagliatura, 
operazione delicata fatta all’aperto da donne esperte.
Il vaglio era un cesto di vimini con due manici aperto sul davanti che doveva essere mosso con ampi movimenti e richiedeva notevoli sforzi muscolari delle braccia, delle spalle, del petto, del bacino e della schiena.  Le donne prendevano con forza i due manici del vaglio, contenete i chicchi di segale,  lo appoggiavano al basso ventre, lo sollevavano con gesto deciso per gettare il contenuto verso l'alto  permettendo al vento di allontanare la pula e raccoglievano i chicchi durante la caduta. 
Poi c’era il problema della segale cornuta, un fungo che attaccava le spighe trasformando alcuni chicchi in corpi duri e scuri. Era importante separare questi chicchi che potevano creare seri problemi di salute se la farina ne conteneva una percentuale alta.   I semi “ cornuti “ erano anche ricercati dalle farmacie, per la presenza di un alcaloide che veniva usato per la preparazione di medicine. 

Finalmente i chicchi erano pronti per essere insaccati e conservati. Poi un po’ alla volta i sacchi si portavano al mulino, e finalmente con la farina si iniziava a produrre al forno i brecadél che si conservavano in un posto asciutto, infilati in un palo di legno per evitare che diventassero il pranzo dei topi.
Il rito della panificazione era lungo, con la preparazione del lievito, il portare la farina o le pagnotte lievitate al forno per la cottura. Un altro lavoro fatto dalle donne, ma questa è un altro capitolo della nostra storia alimentare che merita un nuovo post.