martedì 10 gennaio 2017

QUANDO LE RAPE SI SPOSAVANO CON IL LARDO




In alta Valtellina da Livigno a Trepalle, un tempo, la coltivazione più importante, dopo il prato stabile che veniva affienato solo una volta all’anno (fén mas’c), era la rapa.
Le rigide temperature e il lungo inverno non permettevano del resto altre coltivazioni come le patate, il grano saraceno o la segale che a 1.800/2.000 metri non potevano assolutamente svilupparsi.
Così la rapa era l’unica  coltivazione adatta a diventare la riserva vegetale per il lunghissimo inverno e sostituiva degnamente la patata in diversi piatti permettendo la sopravvivenza non solo del bestiame ma anche delle persone che abitavano la zona.
Si mangiava lessata e sostituiva la patata nella preparazione degli gnocchi di farina, nel ris cunc, nella minestra di latte, nel carcent, un pane caratteristico dove le rape tritate venivano miscelate alla farina. O ancora in piatti più ricchi dove le rape tagliate a fette venivano cotte nel burro o anche stufate con carote e patate.
Ma tra tutte le utilizzazione alimentari va sicuramente ricordata la più singolare e forse la più importante: li lughénia da pàsola, la salsiccia con le rape.

Negli orti le rape si seminavano verso la fine di maggio, utilizzando al sèm, la semente recuperato l’anno prima e conservata in sacchi di tela. La preparazione del sèm, era un procedimento lungo e laborioso (le rape sono piante biennali) che richiedeva il recupero delle piantine dopo il primo anno, la conservazione in cantina in terra e il trapianto nell’orto in primavera fino alla produzione dei fiorellini dorati e poi delle piccole capsule contenenti i semi.

I semi venivano miscelati con cenere o terra e poi sparsi nell’orto. La quantità di seme per metro quadrato era calcolata in base al risultato che si voleva ottenere. Durante la raccolta, infatti, le rape venivano differenziate in base alle dimensioni delle radici in ra e pàsola. Più grossa la prima radice, più piccola la seconda. Una quantità maggiore di semi per metro quadrato permetteva alle piante di crescere più vicine e rendeva le rape più piccole permettendo una maggiore quantità di pàsole raccolte.

Era, infatti la pàsola e non la ra che veniva usata per fare la luganega.
La raccolta iniziava a settembre, dopo la fienagione. Le pàsole, dopo essere state scelte tra tutti i tuberi, venivano legate in mazzi, lasciando la pianta attaccata al tubero e messe a essiccare appese evitando così la possibile formazione di marciumi.
Dopo tre mesi di essiccazione le rape venivano separate dalla parte verde, ormai secca, con una torsione e conservate in un sacco pronte per essere cotte per la preparazione della luganega.
Il momento della cottura era preceduto da un’accurata pulizia, togliendo i rimasugli di terra per mezzo di un coltellino. La cottura avveniva in una grande caldaia di rame per un periodo molto lungo, anche tre ore, facendo attenzione a non superare la giusta consistenza.

Durante la cottura era necessario mescolare ogni tanto le rape e soprattutto aggiungere acqua. Le rape in cottura assorbivano molta acqua, tanto che alla fine della bollitura le pàsole avevano quasi triplicato il loro peso.

Dopo il raffreddamento venivano pelate e nuovamente lavate prima della pesatura necessaria per stabilire la quantità dell’altro ingrediente, il lardo. Il matrimonio dei due ingredienti era alla pari, generalmente metà e metà, ma anche quantitativi minori di lardo. Spesso al posto del lardo si usava la pancetta, arricchendo così il salume anche di quel minimo di carne che la pancetta poteva contenere. Il risultato era una lughènia più gustosa e saporita.
Lardo e pancetta comunque dovevano essere  sempre freschi per permettere una lunga conservazione del salume senza irrancidire.

Dopo la macinazione, non eccessivamente grossa, dei due ingredienti, il composto veniva messo in un recipiente, quasi sempre la cònca del porcèl, e miscelato a mano dopo aver aggiunto le spezie: sale, aglio, pepe, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, zucchero, quasi mai vino.

Seguiva la fase dell’insaccatura utilizzando come involucro il budello di maiale o di pecora rigorosamente pulito, passato in acqua e aceto per togliere ogni cattivo odore residuo. Il budello veniva messo sul pedriol, l’imboccatura a forma d’imbuto della macchina insaccatrice, al cui interno il composto veniva pressato fino a farlo uscire dal pedriol per entrare nel budello e formare una lunga salsiccia di circa 35 cm.
Non si usava spago, la salsiccia veniva piegata su se stessa ed era pronta per la stagionatura. A differenza degli altri salumi li lughénia da pàsola non si stagionavano  in cantina ma nei solai perché per una corretta maturazione era necessario utilizzare un luogo arieggiato.  Lì le luganeghe venivano messe a cavallo di una pertica permettendo alle due estremità di avvicinarsi assumendo così la  forma caratteristica.Erano necessari pochi giorni per farle  seccare, dieci/quindici, anche se nei solai poi rimanevano per tempi più lunghi.

Prima di portare la produzione di salsicce in solaio, ne venivano scelte alcune da mangiare fresche, cotte nel forno della cucina economica, quasi abbrustolite. Era un modo per festeggiare la conclusione del lavoro ma anche per cominciare ad assaggiare un prodotto il cui sapore dolciastro, leggermente terroso  ma deciso avrebbe accompagnato l’alimentazione dei livignaschi per diversi mesi.


Ps : per i buongustai ricordo che è ancora possibile trovare li lughénia da pàsola a Livigno presso il negozio “Macelleria Bormolini” in via Osteria 553-













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