venerdì 23 dicembre 2016

TANTI AUGURI CON IL MATUCHIN

La bisciola  nella storia alimentare valtellinese rappresenta il dolce di Natale, ma soprattutto rappresenta il dono natalizio che generalmente i bambini ricevevano dal padrino del sacramento del  battesimo. In bassa valle, si usava anche impastare il dolce forgiandolo a forma di bambino (il matuchin), per ricordare al figlioccio il giorno del battesimo. Il panificio Gusmeroli di Talamona nel mese di dicembre produce ancora il Matuchin, che propone al consumatore in una confezione elegante adatta per diventare un piacevole regalo da fare ai bambini.
Leggi  il post  
BUON NATALE CON IL DOLCE TIPICO DELLA TRADIZIONE VALTELLINESE 
del 17 dicembre 2014

lunedì 12 dicembre 2016

IN VALTELLINA TORNA LA COLTIVAZIONE DELLA SEGALE


"Segale 100% Valtellina", è il nuovo progetto ideato e promosso dall'Unione del Commercio del Turismo e dei Servizi della provincia di Sondrio, con l'Associazione Panificatori e Pasticceri attiva al suo interno, e da Coldiretti Sondrio.
Si tratta di un progetto sperimentale che per ora ha coinvolto l’azienda agricola Pelacchi Michele e dieci panifici distribuiti in modo omogeneo tra tutta la provincia di Sondrio, dalla Valchiavenna a Livigno.

Il pan de ségêl a forma di ciambella, ottenuto con farina di segale 100% Valtellina sarà prodotto in un periodo limitato, in tutti i weekend (a partire dall’ 8 dicembre 2016) fino al 5 marzo 2017, per diventare in   prospettiva, una volta disponibili maggiori quantitativi di farina, una produzione continuativa.
L’obiettivo è sicuramente ambizioso: reintrodurre e valorizzare un’antica coltura  e produrre un tipo di pane realizzato con f

farina di segale originaria esclusivamente della Valtellina, coltivata in modo naturale senza l’uso di fitofarmaci.
Un pane che rappresenta la nostra storia, l’artigianalità alimentare dei nostri panificatori ma anche le peculiarità nutrizionali di un prodotto particolarmente digeribile ricco di vitamina E, vitamine del gruppo B, sali minerali (calcio, ferro, magnesio e potassio), proteine ad alto valore biologico (aminoacidi essenziali come lisina e treonina), fibra  per il 15%.
Il progetto vuole poi riscoprire e valorizzare una coltura antica e tipica valtellinese che purtroppo nel corso degli anni è stata abbandonata ma che ha occupato un ruolo importante  nella storia alimentare valtellinese anche perché facilmente adattabile ai climi freddi della nostra valle e ottimamente  inseribile nella rotazione agronomica con le patate e il grano saraceno.

Si seminava in autunno, dopo la raccolta delle patate  e si mieteva in estate lasciando il terreno libero per la semina del grano saraceno. In genere il seme utilizzato veniva scelto trai i semi più grossi del raccolto precedente. I semi germinavano prima del gelo invernale e dopo una decina di giorni spuntavano dei fili  verdi/rossicci. I deboli filamenti ai  primi freddi e alle prime brinate del mese di novembre si piegavano adagiandosi sul terreno, pronti ad essere coperti dalla neve durante l’inverno.
Al risveglio primaverile le piantine iniziavano a crescere lentamente e quando erano alte una ventina di centimetri iniziava la pratica della sarchiatura. Era un lavoro faticoso, eseguito quasi sempre dalle donne che operavano con  la schiena ad arco e la testa sempre piegata,  muovendo energicamente il sarchiello con il manico corto.  I possibili giramenti di testa richiedevano spesso il rialzarsi lentamente,  il puntare le mani sui fianchi per non barcollare e ritrovare l'energia per riprendere il lavoro.  

Dopo circa un mese si faceva una nuova pulizia estirpando le erbacce, lentamente per non danneggiare le piantine di segale e poi finalmente lo spettacolo della maturazione: le alte spighe rese pesanti dai chicchi, il rosso dei papaveri, l'azzurro dei fiordalisi.  Bellissimi fiori che non si potevano cogliere. Ai bambini era vietato per paura che potessero danneggiare i sottili steli delle piantine.

Verso il quindici di luglio e fino ai i primi di agosto, a seconda dell'andamento climatico e della esposizione dei campi, si svolgeva la mietitura.
Le donne attrezzate con le falci messorie, entravano nel campo e delicatamente, per non disperdere i chicchi sul terreno, tagliavano alla base gli steli adagiandoli a mazzi sul terreno. Erano gli uomini che si occupavano di formare i covoni, legarli e portarli, caricandoli nelle gerle apposite, nei solai ben arieggiati. I covoni si mettevano in piedi, appoggiati ai muri, con le spighe in alto. Quando i covoni erano essiccati o più precisamente quando i chicchi non erano più scalfibili con l’unghia, era tempo di battitura.  La battitura avveniva in un locale grande, ventilato: l’aia o il solaio.  
I covoni venivano sbattuti su un piano inclinato, spesso una vecchia porta tenuta per questo uso, per far cadere i chicchi più maturi, poi venivano slegati e allineati sul pavimento e battuti con attrezzi speciali. Dopo la prima battitura venivano girati e ribattuti.  I chicchi venivano accumulati in un angolo di volta in volta per evitare che la battitura potesse rovinarli. Era un lavoro polveroso, lungo, faticoso che terminava solo quando nel grande locale si formavano due mucchi distinti di paglia e di chicchi.
La paglia veniva tritata e utilizzata per l’alimentazione del bestiame o anche per riempire i sacconi del letto, i pagliericci usati come materassi.
 I chicchi  necessitavano invece della  vagliatura, 
operazione delicata fatta all’aperto da donne esperte.
Il vaglio era un cesto di vimini con due manici aperto sul davanti che doveva essere mosso con ampi movimenti e richiedeva notevoli sforzi muscolari delle braccia, delle spalle, del petto, del bacino e della schiena.  Le donne prendevano con forza i due manici del vaglio, contenete i chicchi di segale,  lo appoggiavano al basso ventre, lo sollevavano con gesto deciso per gettare il contenuto verso l'alto  permettendo al vento di allontanare la pula e raccoglievano i chicchi durante la caduta. 
Poi c’era il problema della segale cornuta, un fungo che attaccava le spighe trasformando alcuni chicchi in corpi duri e scuri. Era importante separare questi chicchi che potevano creare seri problemi di salute se la farina ne conteneva una percentuale alta.   I semi “ cornuti “ erano anche ricercati dalle farmacie, per la presenza di un alcaloide che veniva usato per la preparazione di medicine. 

Finalmente i chicchi erano pronti per essere insaccati e conservati. Poi un po’ alla volta i sacchi si portavano al mulino, e finalmente con la farina si iniziava a produrre al forno i brecadél che si conservavano in un posto asciutto, infilati in un palo di legno per evitare che diventassero il pranzo dei topi.
Il rito della panificazione era lungo, con la preparazione del lievito, il portare la farina o le pagnotte lievitate al forno per la cottura. Un altro lavoro fatto dalle donne, ma questa è un altro capitolo della nostra storia alimentare che merita un nuovo post.  




sabato 12 novembre 2016

QUANDO UN CASARO VIENE PREMIATO CON UNA GRANDE CLAQUE

Ha cominciato a nove anni, lassù nella valle del Bitto di Albaredo, all’alpe Piazza, dove papà, zio e nonno da   molto tempo caricavano l’alpeggio.
A dodici anni "cascin" per due anni, poi pastore e finalmente a sedici anni davanti alla grande caldaia di rame piena di latte a mettere in pratica le conoscenze ed abilità di un corso organizzato dalla comunità montana di Morbegno per giovani casari. Ma anche le abilità rubate al casaro che per anni ha visto lavorare in quella baita, con il fumo che usciva dalla porta e dalla piccola finestra. 
Oggi Flavio ha 37 anni e continua la storia della famiglia tra le vacche, le capre, le erbe di uno dei più belli alpeggi delle Alpi Orobie, ma soprattutto muovendo con arte e passione gli antichi strumenti della lavorazione del latte.
Venti stagioni estive producendo Bitto e ricotta sempre più apprezzati dai clienti che si fermano nel rifugio gestito da Nadia e Isidoro.
Venti stagioni dove ogni tanto l’armonia del suono dei campanacci è arricchita dalla chiassosità dei ragazzi che frequentano i campi estivi organizzati da Nadia per promuovere la conoscenza delle tradizioni e dell’economia di montagna.
E così, spesso, Flavio è lì davanti a dei ragazzini con gli occhi spalancati che assistono alla lenta trasformazione del latte in un prodotto diverso fino a quando il lungo corpo di Flavio si piega all’interno della grande caldaia, la testa scompare e riappare come in un magico gioco vicino a un grosso fagotto estratto dal latte.
Allora Flavio rimette il suo inseparabile cappellino e inizia a plasmare  la cagliata nella fascera, sempre attorniato dai ragazzini con gli occhi rossi per il fumo, contento di far conoscere un’arte antica, fatta di gesti lenti, di amore per un territorio.
Venti stagioni che hanno rafforzato l’amore di Flavio per quest’alpeggio tanto da poter affermare di non avere nessuna intenzione di abbandonarlo, anche se, proprio per le sue particolari abilità nella caseificazione, è richiesto nella vicina Svizzera con possibilità di guadagni sicuramente molto più alti. “ ma io preferisco star qui, continuare una tradizione di famiglia in un territorio che mi appartiene, che non voglio abbandonare!”

E negli ultimi anni i primi riconoscimenti per il suo  lavoro arrivano durante le edizioni dell’annuale mostra del Bitto, per il formaggio di alpeggio ma anche per il latteria prodotto nella piccola latteria di Traona dove ha lavorato nei mesi non trascorsi in alpeggio.

Sono andato a trovarlo nella sua stalla in mezzo alle sue capre mentre distribuiva la razione alimentare serale ai suoi animali preferiti. Una ventina di capre orobiche, perfettamente tenute, curate e coccolate nel tempo non dedicato alla lavorazione del formaggio.

Gli chiedo qual è il segreto per produrre una forma di Bitto così eccezionale da mettere perfettamente d’accordo una giuria di nove esperti e riuscire ad avere una valutazione con un punteggio altissimo, con l’aggiunta del riconoscimento “super” non più attribuito da dieci anni.4

 Mi guarda, sorride “ il mio segreto è anche questo” mi dice indicando le sue amate capre. Già le capre che porta in alpeggio, a 1800 metri, nelle valli del Bitto e che tutti i giorni munge ( solo lui le può mungere) per arricchire il latte vaccino nel rispetto di una tradizione che vede il latte di capra ingrediente fondamentale nel migliorare le caratteristiche organolettiche del Bitto. E, infatti, il giudizio della commissione giudicatrice non può fare a meno di evidenziare questa tipicità con il seguente giudizio: formaggio dotato di ottima struttura, odore intenso, complesso, con gradevoli note vegetali e un delicato sentore di fumo. Il sapore dolce, delicato ed equilibrato regala in bocca sensazioni di piacevolezza particolare che ci ricordano la tradizione casearia di montagna più autentica.

Ma dietro quella forma di Bitto “ continua a raccontare   "c’è una storia di passioni, di emozioni, di fatica, di lavoro. Ci sono le vacche e le capre da mungere, le due lavorazioni quotidiane del latte subito dopo ogni mungitura,i lavori nella casera. Ci sono momenti difficili, duri, di solitudine, di sole cocente e grandine che fa male, di condivisione con gli animali, dell’essere circondati dalle montagne quasi a formare un tutt’uno. Sono scelte di vita dettate dalla passione e da un amore innato verso la natura in tutta la sua complessità e semplicità. Non a sproposito li definisco “momenti” e non "lavoro", perché chi ama ciò che fa, rende visibile l’amore…”
Guarda le sue capre che mangiano l’erba appena tagliata, e continua “ e poi la scelta della forma da portare alla mostra. Una scelta difficile perché non vorresti mai sbagliare e allora guardi tutte le forme che hai prodotto durante la stagione, le giri, le tocchi, guardi la data di produzione, cerchi di ricordare le condizioni meteorologiche di quel giorno, dove le vacche erano a pascolare. E poi scegli…e magari sbagli come mi è successo l’anno scorso.
Per noi produttori vincere il primo premio alla mostra di Morbegno è una soddisfazione grandissima e se poi ricevi anche un giudizio come quello espresso dalla giuria di quest’anno non puoi che essere felice, soddisfatto di un lavoro che è capito ed apprezzato anche da altri."

Sorride, probabilmente pensa al successo del suo SUPER BITTO  alla 109° mostra del Bitto, pensa al momento della premiazione quando è stato chiamato sul palco per  ricevere il premio per il Bitto Super accompagnato da grandi applausi, e da una claque degna di  un divo della musica leggera.





venerdì 30 settembre 2016

IL SENTIERO DEL VINO : OPPORTUNITÀ PER CONOSCERE I VINI DELLA COSTIERA DEI CECH





Parte dalla stazione di Morbegno il pullman che ci porta a Mello per conoscere i vini IGT, l’ Indicazione Geografica Tipica Terrazze Retiche della costiera dei Cech.
Un percorso di circa 2 chilometri, tra vigneti terrazzati, massi erratici, panorami stupendi, antichi borghi.

 E subito, appena si aprono le porte del pullman, ci accoglie il sorriso di Rosalba, socia della cooperativa Terrazze dei Cech: “Siamo a Mello, paese del miele e degli zingari”.
Mentre i nostri occhi si aprono su un bellissimo panorama della bassa valle che si perde nel lago di Como e sulle montagne orobiche con il Legnone in bella vista, Rosalba continua: “Mello, deriva dalla parola latina mel, ossia miele, perché un tempo qui c’erano tantissime api e si produceva un ottimo miele. Zingari, perché i Melàt, cioè gli abitanti di Mello , nel passato per cercarsi i pascoli per i loro bestiame andavano ovunque spingendosi fino in Valchiavenna, nella Valle dei Ratti, in Val Codera ed in  Val Masino 
dove riuscirono a colonizzare una valle, che prenderà appunto il loro nome, val di Mello.”

Già la val di Mello, oggi conosciutissima per la sua selvaggia bellezza e per le possibilità offerte ad alpinisti e climbers, un tempo era percorsa dei Melat alla ricerca di un po’ di erba nei magri pascoli presenti posti in cima alle vallette laterali, ripide e scoscese.
 
Lionello, un altro socio della cooperativa, si unisce a noi per accompagnarci in questo percorso che da Mello proseguirà scendendo fino a Santa Croce di Civo, per poi risalire fino alla chiesetta di S. Biagio con sei tappe in cantine per la degustazione dei vini della costiera del Cech abbinati a salumi, formaggi e dolci tipici locali.

Il primo tratto, in discesa verso Santa Croce, attraversa un bosco di latifoglie con castani, noccioli, robinie, alte felci nel sottobosco. Poi il bosco si apre. Una casa isolata, con un dipinto a tema religioso, ci racconta la devozione popolare degli abitanti di Civo. Un comune particolare, nel cui territorio sono disseminati tredici campanili, ciascuno con una propria storia da raccontare. Una storia che ci accompagna lungo il piacevole sentiero che ogni tanto si apre su bellissimi panorami della bassa valle con i grossi agglomerati urbani di Morbegno, di Cosio, le montagne delle Orobie. Una storia fatta d’interessanti curiosità come l’etimologia della parola “Cech”, che qualcuno fa risalire a “ciechi” con riferimento ad una lunga resistenza alla conversione al cristianesimo o invece a Franchi che, arrivati dallo Spluga per combattere i Longobardi, si fermarono in questa zona

Ancora nel bosco, i nostri accompagnatori ci fanno notare un grande masso erratico, di epoca glaciale, “ lì sotto si scavava, andando anche in profondità, per costruire locali freschi, che potevano essere utilizzati come cantine per il vino, ma anche per il latte…, i “Casel”, che poi avremo modo di visitarne alcuni, dove assaggeremo il vino della nostra cooperativa”.
Arriviamo alle prime case di Santa Croce e ci appaiono vecchie abitazioni ristrutturate con ballatoi di legno o con ringhiere in ferro, tutte con tetti in piode. Qualche costruzione nuova, sempre con lunghi balconi rivolti a sud, sembrano spuntare dai vigneti terrazzati e, ancora sparsi nel verde, alcuni grandi massi erratici quasi a completare il paesaggio di questi piccoli vigneti, spesso recitanti per difenderli dai cervi che da alcuni anni sono diventati l’incubo dei viticoltori della zona.

Ma i soci della cooperativa non demordano, continuano la tradizione di famiglia: “3000 metri quadrati ereditati dai mio padre 22 anni fa” racconta Rosalba “ la difficile scelta se abbandonare o continuare, ma non si può abbandonare un territorio e così con mio marito abbiamo deciso di continuare un’attività che da anni la mia famiglia portava avanti. Certi anni va bene, riusciamo ad avere una buona produzione, altri come questo, tra grandine, peronospora e cervi purtroppo assisteremo ad una notevole riduzione della produzione.

Lionello mi parla della cooperativa, dell’importanza sociale di una struttura che ha permesso a tutti i soci di vendere l’uva in esubero, di valorizzare un vino che è sempre stato considerato un po’ la cenerentola dell’enologia valtellinese, ma soprattutto la cooperativa  ha permesso il mantenimento dei terrazzamenti già coltivati a vite e il  recupero ove possibile dei terreni incolti. Camminiamo vicino ai filari delle viti, ammirando i bei grappoli di Nebbiolo o di Barbera ormai quasi pronti per essere trasformati in vino e arriviamo alla cantina di Bonetti Silvio, dove assaggiamo un generoso Orgoglio dell’az. Piccapietra di Traona, accompagnato da bresaola e formaggio di latteria.

Nella seconda cantina ci accoglie Davide. Siamo in un’antichissima cantina, anzi in un insieme di sei cantine costruite sotto il masso più grosso dell’intera zona. Le sei cantine, alcune ancora utilizzate, sono state realizzate scavando sotto il crap su livelli differenti.

Cantine che comunicano tra loro con delle finestrelle che permettevano, oltre al ricambio dell'aria, la comunicazione tra i vignaioli occupati nei faticosi lavori della vinificazione.
Davide ci fa notare il numero civico sopra una porta e i tagli orizzontali scavati nella roccia per permettere all’acqua di defluire. Assaggiamo il Sentimento selezione 2012, prodotto con uve selezione dai vigneti "alti" con una vinificazione tradizionale, invecchiato in tonneaux di rovere.
Ottimo vino prodotto con uve Nebbiolo e Barbera dal sapore gradevole, morbido di buona persistenza al palato con buona sapidità. Secondo vino in assaggio il Delor, vino bianco fresco, prodotto con uve a bacca bianca, principalmente Chardonnay. Un nome insolito in omaggio al socio Dell’Oro che ha regalato lo stabile alla cooperativa. Sentimento, Delor, formaggio, pane, bresaola, una fetta di bisciola e via verso un'altra cantina, quella di Bruno Re, ancora sotto un masso erratico, ancora con stretti gradini in sasso che ci portano in profondità per essere accolti da due simpatiche donne vestiti con abiti tradizionali che ci fanno  degustare altri due vini di cantine vicine: Bullium e San Sest , altro formaggio, altri salumi. 

Si riparte. Attraversiamo il centro di S Croce, verso Selvapiana e arriviamo alla sede della cooperativa, orgoglio dei 23 soci che portano le loro uve per produrre circa 20.000 bottiglie l’anno.
Tutto è in ordine: botti di acciaio, in vetroresina, in legno, barrique, una bella saletta di degustazione. Qui  conosciamo gli altri due vini della cooperativa: il Sentimento Barrique, dal sapore particolare, leggermente tostato, prodotto con affinamento in barrique per almeno sei mesi e il Sentimento tradizionale, il vino simbolo della cooperativa, il vino più tradizionale, il più legato alla storia, ai SENTIMENTI  di amore per il territorio.

Paolo, nella cantina del Vecchio Torchio ci accoglie per farci assaggiare altri due vini, ma soprattutto un ottimo miele di castagno, piacevole, aromatico, con un leggerissimo retrogusto amarognolo che si abbina molto bene al casera proposto in assaggio. Un pezzetto di bisciola, un altro sorso di Rupi di S. Sisto della cooperativa Bullium, una veloce visita al vecchio torchio, uno sguardo a un’antica casa costruita sfruttando la possibile aderenza ad un grande masso e via, per il ripido sentiero verso S. Biagio.
 
La cantina della Chiesa con la sua entrata elegante ci aspetta per un ultimo assaggio, ancora Sentimento Tradizionale, e ancora Sentimento Barriqe, sempre accompagnati da prodotti tipici della zona. L’ultimo assaggio. Sicuramente il più significativo, perché consapevole di una storia che si cela dietro quel bicchiere.

E allora mentre i sentori di frutta matura si liberano in bocca, non possiamo che provare un  sentimento di gratitudine per questa popolazione, che è riuscita a mantenere un territorio ancora vivo attraverso una viticoltura eroica che anche il Maestro Olmi ha voluto rappresentare, inserendo nel suo documentario “rupi di vino” alcune immagini girate proprio qui, sulla costiera dei Cech.


Il sentiero del vino si ripete il 2 e 8 ottobre.
Per informazioni e prenotazioni telefonare al Consorzio turistico Porte di Valtellina  tel 0342 601140













lunedì 5 settembre 2016

L' UOMO CHE ACCAREZZAVA I FORMAGGI



L’ultima volta che l’ho visto era seduto sulla panchina all’esterno del suo negozio, con le spalle appoggiate al muro portante della storica bottega, quasi a proteggerla, quasi a non volerla abbandonare, a sostenerla ancora con la sua esperienza.

Seduto in bellavista vicino al fratello Dario, chiacchierava e sorrideva ai tanti conoscenti che si fermavano a salutarlo. Mi sono fermato anch’io e mentre mi parlava, nei suoi occhi ho notato la felicità di poter comunicare ancora con qualcuno, ma anche la rassegnazione di una vita ormai alla conclusione, il meritato riposo, ma forse il desiderio di essere ancora dietro il banco a tagliare il formaggio migliore per i suoi clienti.

Ho sempre avuto un’ammirazione particolare per questo negozio. E qui che per la prima volta ho assaggiato un Bitto di dieci anni.
Erano i primi anni 90. Da poco mi interessavo di formaggi dopo aver frequentato il primo corso ONAF per assaggiatori di formaggio.
Dovevo scrivere un articolo per la rivista “Valtellina Magazine” ed entrambi i fratelli mi avevano accolto calorosamente cercando di spiegarmi in poco tempo tutti i segreti del Bitto.

Mentre mi raccontava i pregi di questo meraviglioso formaggio, Primo, ha preso con delicatezza una forma di Bitto invecchiata, l’ha appoggiata sul tavolo della cantina tenendola in verticale, l’ha accarezzata, poi l’ha appoggiata sul tavolo continuando ad accarezzarne la faccia superiore, invitandomi a sentire la consistenza e la levigatezza della superficie. “ Non tutte le forme sono adatte per essere invecchiate” mi diceva continuando ad accarezzare il formaggio “ bisogna saperle scegliere, bisogna sapere come le vacche sono state alimentate, in quale periodo il latte è stato prodotto, quanto latte di capra è stato usato.”
Lui sapeva scegliere, conosceva tutti gli alpeggi delle valli del Bitto, conosceva tutti i caricatori, sapeva in quale periodo le vacche pascolavano le erbe migliori di quel determinato alpeggio e così poteva scegliere le migliori forme da portare nelle cantine del negozio per iniziare quel rito di stagionatura che iniziava appena le forme arrivavano a Morbegno e che soli li, in quegli anni si potevano trovare.

Già, le famose cantine di "Ciapun", che scendono di due piani per circa 10 metri, dove le migliori forme di Bitto delle valli vicine iniziano la loro stagionatura che può durare anche 10 anni.
Un continuo lavoro di raschiatura, di ribaltamento sia delle forme sia delle assi sulle quali sono poste, di cure particolari, di stagionature, di forme poste in verticale su appositi scaffali, dove ogni tanto vengono ruotate leggermente come per la lavorazione dello champagne.

Le cantine dove la temperatura è per tutto l'anno dagli 8 ai 13/14 gradi, con volte a muratura a secco, con pavimentazioni differenziate (piattoni o ghiaia) a seconda del prodotto da stagionare, perfettamente areate tramite finestre che danno direttamente all'esterno.
Le stesse cantine che durante la guerra venivano utilizzate come rifugio, durante le incursioni aeree, sia dagli abitanti della casa che dai clienti che si trovavano in negozio.
Così mi raccontava mostrandomi con orgoglio gli spazi dove le sue creature si trasformavano lentamente.

Ho un altro piacevole ricordo di Primo. Durante una mostra del Bitto di quegli anni Primo e Dario erano stati invitati per il taglio di una forma di Bitto di dieci anni.
Ricordo uno spazio sotto un tendone, colmo di gente, le telecamere di Raitre che riprendevano l’evento, l’emozione e la sicurezza di Dario e di Primo, le loro muani che accarezzavano la forma, che segnavano per mezzo di un righello e di un coltellino una riga precisa, il silenzio quasi sacro del pubblico e poi il rito di un’arte che non tagliava ma scolpiva la forma fino ad avere due mezze forme perfette e il clamoroso applauso del pubblico.
Ricordo Primo sorridente. Guardava nella telecamera quasi incredulo dell’interesse che aveva suscitato.
Eravamo nei primi anni novanta, quando pochissimi negozi valtellinesi puntavano sulla valorizzazione dell’enogastronomia valtellinese, quando molti piccoli negozi di paese erano già stati chiusi o trasformati secondi i nuovi modelli commerciali dove il il self service aveva annullato il rapporto cliente/ negoziante.

 Ma Primo e Dario non hanno cambiato, hanno continuato a ricevere i lori clienti nella bottega, togliendo dagli scaffali i vari prodotti, incartandoli nelle vecchie carte per alimenti, conversando con loro e tagliando con cura il formaggio richiesto raccontandone le caratteristiche. Con molta lungimiranza avevano creduto nella tradizione, e non hanno mai trasformato il loro negozio. Ma soprattutto hanno creduto nei prodotti di qualità del nostro territorio ,cercando di valorizzarli nel modo migliore, trasformando la bottega in un luogo di rispetto per la cultura contadina e soprattutto per quella casearia.

E così, ancora oggi i figli Alberto e Paolo continuano a gestire la bottega nello stesso modo presentandola ai clienti come un luogo magico dove si respira il sapore degli alpeggi e della vita contadina, dove mobili e suppellettili rustici ed antichi sono utilizzati per esporre la merce.
Un intreccio tra il vecchio e il nuovo, dove nel tipico arredamento del bottegone di una volta
Con i cassetti con i numeri di porcellana dipinti a mano, le vecchie originali antine a vetrina dei vari scaffali trovano posto i migliori prodotti valtellinesi: il miele, la pappa reale e propoli, i funghi, le grappe (secche, aromatiche, giovani, vecchie, al lampone, alla fragola,) i vini delle principali cantine valtellinesi, esposti nelle cantine sotto il negozio, gli amari, i biscotti, le bisciole, le farine gialle o di grano saraceno rigorosamente macinate a pietra,le marmellate, le caramelle dell'Alta Valtellina.
Tutto come una volta. Tutto come quando il negozio era gestito da Emilio e Paolo (padre di Primo e Dario).
Tre generazioni che si sono tramandate quell'amore per la terra ed i suoi prodotti genuini, tre generazioni che hanno trasformato nel tempo la vecchia bottega dell'orologio anche in un piccolo museo dove la cultura contadina trova spazio tra una forma di formaggio, una bottiglia di vino, una bottiglia di grappa.

Ciao Primo, grazie per aver dedicato la tua vita ai prodotti del territorio, ai formaggi delle valli del Bitto, grazie per aver fatto conoscere il nostro territorio a tante persone.

domenica 3 luglio 2016

SAGRE: 77 REGOLAMENTI COMUNALI O UNO, UNICO, PROVINCIALE






Con la recente approvazione delle ‘Linee guida per la stesura dei Regolamenti delle sagre in Regione Lombardia”, ogni comune lombardo dovrà dotarsi di un nuovo regolamento riguardante l’organizzazione delle sagre sul proprio territorio.
Si completa così l’iter legislativo dalla legge regionale 10/2016 mettendo finalmente ordine alla proliferazione di eventi che spesso creano una concorrenza sleale con i pubblici esercizi.


 Una legge importante, soprattutto per il nostro territorio dove nel periodo estivo l’elevato numero di sagre diventa un’importante occasione di svago, di divertimento e d’incontro per turisti e residenti, ma spesso senza un coordinamento tra le varie proposte, senza una sinergia con i pubblici esercizi, molte volte con poca professionalità e soprattutto senza il rispetto per l’enogastronomia valtellinese in nome di un generalizzato risparmio riguardante l’acquisto delle materie prime. Basti pensare al vino, raramente valtellinese, servito in bicchieri che si schiacciano alla minima pressione, senza del resto poterne apprezzare il colore o il bouquet.




La nuova legge obbliga tutti i comuni, tenendo presente i criteri delle linee guida e sentite le Associazioni di categoria maggiormente rappresentative, a predisporre i nuovi regolamenti sulle sagre.

Criteri importanti quali la calendarizzazione delle sagre entro il 30 novembre dell’anno precedente, il rispetto della normativa igienico-sanitaria, di sicurezza e fiscale, le dotazioni obbligatorie in termini di parcheggi e servizi igienici (anche per disabili), una relazione d’impatto acustico, la raccolta differenziata rifiuti; la possibilità per i Comuni di limitare l’orario di svolgimento per motivi di ordine pubblico e sicurezza e la possibilità di destinare parte della superficie interessata dalla sagra agli operatori in sede fissa o ambulanti.

Per la nostra provincia però l’aspetto più importante e più innovativo della legge, quello riguardante la valorizzazione del territorio e delle produzioni agroalimentari, facilmente non sarà inserito nei nuovi regolamenti, almeno non obbligatoriamente.


Infatti, nella “linea guida” recentemente approvate, il legame con il territorio riguarda solo l’eventuale sovrapposizione di sagre nello stesso giorno e nello stesso comune. Solo in questo caso la selezione tra le varie proposte per la calendarizzazione terrà prioritariamente presente: le sagra che abbiano finalità di valorizzazione del territorio, del turismo, dei prodotti enogastronomici tipici, della cultura e dell’artigianato locale; i prodotti alimentari venduti e somministrati dovranno provenire in prevalenza dall’Elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali della Regione Lombardia o comunque classificati e riconosciuti come DOP, IGP, DOC, DOCG e IGT della Regione Lombardia;…”


Un criterio importante, che meriterebbe di essere inserito nei regolamenti comunali indipendentemente dalla selezioni di eventi organizzati in concomitanza, considerando che da diversi anni, nel nome della diversificazione, sono nate sagre che poco hanno a che fare con la tradizione, la cultura e soprattutto con la valorizzazione dell’enogastronomia locale.
La frammentazione territoriali in settantasette comuni della provincia di Sondrio potrà comunque prevedere due sagre nello stesso giorno a distanza di pochi chilometri, senza nessuna limitazione e i nuovi regolamenti comunali difficilmente potranno cambiare le cose.
Ma la specificità della nostra provincia potrebbe anche azzardare uno sforzo, un regolamento provinciale, concertato con tutti i comuni, con un calendario provinciale, dove sono privilegiate le sagre che abbiano finalità con il territorio, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzazione dei prodotti agroalimentari, da inserirsi poi nel calendario regionale.
Un’occasione per valorizzare le produzioni provenienti dall’Elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Lombardia o comunque classificati e riconosciuti come DOP, IGP, DOC, DOCG e IGT della Regione Lombardi.
Un’occasione per dimostrare che il territorio è unito in una azione forte nata per valorizzare le produzioni locali e  per creare una nuova cultura territoriale tra tutte i giovani volontari appartenenti alle associazioni che organizzano le sagre.
Un’occasione per le amministrazioni comunali per dimostrare concretamente il sostegno a un’agricoltura di montagna fatta di fatica e di sacrifici, per riconoscere il lavoro di che ancora dedicata il suo tempo nel mantenere la vigna e i terrazzamenti che diversamente sarebbero abbandonati a un degrado strutturale e vegetativo.
Un' occasione per promuovere, attraverso le locandine che pubblicizzano la manifestazione le aziende che hanno fornito i prodotti, e magari  valorizzare la sagra con un marchio provinciale   questa sagra aiuta e difende il territorio valtellinese”.
 
leggi anche il post del 15/03/2014 : Pronti via...  Arrivano le sagre

venerdì 3 giugno 2016

PERCHE' L'IGP AI PIZZOCCHERI PRODOTTI CON GRANO SARACENO PROVENIENTE DALLA CINA ?


Mi hanno chiesto “ ma perché il riconoscimento europeo  IGP ai pizzoccheri delle Valtellina?  Perché un’indicazione geografica  protetta per una pasta fatta con farina di grano saraceno che viene dalla Cina?”
Semplice.
Perché a differenza della DOP (denominazione origine protetta) dove tutto ciò che concerne l’elaborazione e la commercializzazione del prodotto ha origine nel territorio dichiarato, nel caso del prodotto IGP non tutti i fattori che concorrono all’ottenimento del prodotto provengono dal territorio dichiarato.

L’esempio tipico è la Bresaola della Valtellina, prodotto IGP e non prodotto DOP, perché ottenuta da carni di animali che non sono allevati in Valtellina, pur seguendo i metodi di produzione tradizionali e beneficiando, nel corso della stagionatura, del clima particolarmente favorevole della zona.
Così anche per le «Rusticane tagliatelle a base di farina di grano saraceno, specialità della Valtellina» (dizionario della lingua italiana Zingarelli) si valorizza e si riconosce il metodo di produzione tradizionale e il territorio dove il prodotto è sempre stato preparato.
 
E’ importante specificare che l’ IGP riguarda il prodotto di base, le tagliatelle o gnocchetti sia preparati secchi che freschi, non riguarda la ricetta. La Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea del 24 maggio 2016 che assegna il marchio IGP (indicazione geografica protetta), stabilisce che i “Pizzoccheri della Valtellina” sono una pasta alimentare derivata dall’impasto di almeno il 20 % di farina di grano saraceno in miscela con altri sfarinati e sono da intendersi e da commercializzare sia come pasta secca sia fresca.
La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea chiude finalmente una lunga storia iniziata nel 2012 con la pubblica audizione presso la Camera di Commercio di Sondrio.  L’iter per il riconoscimento si era interrotto al ministero per l’opposizione del Pastificio Annoni di Fara Gera d’Adda, in provincia di Bergamo, che aveva rivendicato l’origine storica della pasta al territorio della bassa Bergamasca chiedendone l’allargamento della zona. Il contenzioso fu chiarito nel 2014 dal Tribunale delle imprese di Milano che stabilì che solo i pizzoccheri prodotti in provincia di Sondrio si possono chiamare “della Valtellina”; ma soprattutto stabilì che l’uso della dicitura “della Valtellina” per quelli prodotti in altre zone geografiche è da considerarsi concorrenza sleale.
Una conclusione importante che sancisce anche l’appartenenza storica di una materia prima, il grano saraceno, introdotto in Valtellina dopo il 1600.
Entrando nella rotazione agraria biennale dei nostri paesi di montagna (patate, grano saraceno, segale) ha permesso un miglior sfruttamento del poco terreno disponibile ma soprattutto ha dato una nuova risorsa alimentare alla povera cucina dei valtellinesi.
Ma se è pur vero che oggi in provincia di Sondrio è sempre più difficile vedere i fiorellini bianchi del grano saraceno o il rosso dei papaveri tra le spighe delle segale, non si può dimenticare che la farina di grano saraceno, opportunamente miscelata ad altre farine, è stata  la base  di molti piatti della cultura alimentare della Valtellina e Valchiavenna.  
Grazie al grano saraceno sono nate alcune pietanze nuove che hanno sostituito la monotonia della polenta, delle minestre di latte o di quei "pastoni" fatti con le erbe selvatiche e condite con un po' di lardo: i malfàcc e gli strozzaprèvet, gnocchetti fatti con miscele di farine di grano saraceno e altri cereali, aggiungendo verdure e conditi secondo la tradizione, le manfrigole, piccoli cannelloni fatti con farina di grano saraceno ripieni di formaggi, conditi con il burro fuso, gli sciàtt o i chiscioi, frittelle di farina di grano saraceno contenente un pezzetto di formaggio e fritti nello strutto o nel lardo. Il fugascìun, lasagnette di farina di grano saraceno, di frumento e di segale, cotte in acqua con patate e verze, conditi con burro e formaggio giovane tagliato a fette, servite in una parte del brodo di cottura. O ancora l’introduzione della farina di grano saraceno anche nella preparazione della polenta miscelandola con quella di granoturco.
E naturalmente i pizzocher.  
Ma va ricordato che i pizzoccheri , così come vengono preparati oggi, non appartengono alla cultura contadina più autentica.

Nel 1798 Lehmann in "Die Republik Graubunden", riferendosi alla Valtellina dice: ”… il contadino benestante vive bene.  Consuma infatti i prodotti della sua terra. Latte, formaggio e burro sono serviti ogni giorno in abbondanza…I "Perzockel" sono una sorta di tagliatelle fatte di farina e di due uova. La pasta vien cotta nell'acqua, poi si aggiunge il burro e si sparge subito il formaggio grattato…”
I pizzoccheri del contadino povero erano fatti invece mettendo nell’acqua bollente assieme alle verze e le patate, piccoli pezzetti dell’ impasto di farine e acqua, staccati con le mani o con un cucchiaio. (pizzocher col cugiar).
Non erano le tagliatelle la cui preparazione richiedeva un tavolo, spesso mancante nelle case dei contadini più poveri. E così in aggiunta al formaggio per il condimento si usava il lardo o lo strutto e non il burro, che il contadino più povero vendeva e utilizzava con molta parsimonia.

Oggi i pizzoccheri sono diventati il simbolo della gastronomia valtellinese, presenti nei menu di tutti i nostri ristoranti e preparati nelle tantissime feste paesane; un numero elevatissimo di piatti che quotidianamente vengono preparati purtroppo  utilizzando grano saraceno importato dalla Cina, non essendoci in loco una produzione quantitativamente adeguata.
Va segnalato che alcuni ristoranti valtellinesi utilizzano grano saraceno autoctono, che da alcuni anni comincia a essere nuovamente coltivato nella nostra valle.
Il riconoscimento europeo per i pizzoccheri potrebbe diventare l’occasione per rilanciare la produzione di questa poligonacea rintroducendola nelle zone marginali creando un mercato di nicchia legato appunto soprattutto alla ristorazione.

I dati produttivi sono abbastanza incoraggianti: un ettaro di terreno a grano saraceno potrebbe dare, in condizioni climatiche favorevoli, 15 quintali di granella che diventano circa 11 quintali di farina e potrebbero servire a preparare 11.000 porzioni di pizzoccheri.  

Senza dimenticare che la coltivazione di grano saraceno potrebbe anche creare una produzione di miele di grano saraceno, particolarmente richiesto per le ottime proprietà antiossidanti.  

Così come potrebbero essere intensificate coltivazioni di patate e di verze per promuovere nella ristorazione una ricetta più autentica, più legata al territorio, come del resto è specificato nelle notizie storiche del disciplinare:
La produzione dei «Pizzoccheri della Valtellina» è considerata dai Valtellinesi un’attività tradizionale, legata alla propria storia e alla propria cultura; basti pensare che questa particolare pasta dopo essere stata cotta, viene tradizionalmente condita con numerosi ingredienti derivanti da colture e produzioni caratteristiche della Valtellina (burro, formaggio, verdure quali verze, patate ecc.)
Invece in diversi ristoranti burro e formaggio non sono scelti tra le produzioni valtellinesi, ma seguendo la logica del profitto, utilizzando quelli più economici dimenticando di rispettare la tradizione e la territorialità. Così il formaggio top della cultura casearia valtellinese, il Valtellina Casera, formaggio che per le caratteristiche organolettiche e strutturali è sicuramente il formaggio più adatto per la preparazione del nostro piatto tradizionale, viene spesso sostituito con altri formaggi.

In un’indagine del Distretto Agroalimentare di Sondrio “ INDAGINE SUI MERCATI E CANALI DI SBOCCO DEI PRODOTTI AGROALIMENTARI DELLA VALTELLINA (2010)” realizzato dalla società Agri2000, si riportano i seguenti dati riferiti al formaggio Bitto e Valtellina Casera:
·    La provincia di Sondrio assorbe una quota in valore del 37,5% del mercato. Il territorio nazionale, esclusa la Valtellina, assorbe oltre il 60% della produzione, mentre l’esportazione è del tutto irrisoria con una quota inferiore all’1%.
·     I canali distributivi sono i seguenti: GRANDE DISTRIBUZIONE: 82%, GROSSISTI: 15% (di cui 25% alla ristorazione), DETTAGLIO: 3%, RISTORAZIONE: 0,01% .
Rapportando questi dati alla produzione annua di 200.000 forme di Valtellina Casera, risulta che solo 3.000 forme vengono utilizzate dai ristoranti valtellinesi. 

Calcolando che in Provincia di Sondrio ci sono circa 1000 ristoranti (ristoranti, ristoranti di alberghi, agriturismi, rifugi) si avrebbe un consumo medio per ristorante di 3 forme all’anno. Veramente pochi per un’enogastronomia che dovrebbe puntare tantissimo sui prodotti caseari.
Considerato che nella ristorazione valtellinesi i pizzoccheri sono il piatto più richiesto, credo sia ragionevole e prudenziale calcolare una  preparazione media di  50 porzioni a settimana per ristorante.
Calcolando un consumo di formaggio di 60 grammi a porzione (ricetta Accademia del Pizzocchero), avremmo un totale potenziale di circa 20 forme all’anno per ristorante solo per la preparazione dei pizzoccheri, per un totale di 20.000 forme. Un decimo della produzione totale del Valtellina Casera.
Ultimo ingrediente: il burro. Molto spesso vengono utilizzati burri importati dall’estero, o prodotti da industrie lontane dalla Valtellina, dimenticando che il “burro di latteria” è un prodotto agroalimentare tradizionale (PAT) riconosciuto dalla Regione Lombardia  e prodotto con crema derivante da latte valtellinese.

Le caratteristiche organolettiche di questo grasso fuso sopra le tagliatelle di grano saraceno sono ben diverse da quelle dei burri d’importazione.
E allora mettiamo il sapore delle patate di montagna, il gusto raffinato del Valtellina Casera, il profumo del burro di latteria, il sapere del grano saraceno  maturato al sole della Valtellina, mettiamo tutto in un piatto e raccontiamo ai turisti che dentro  quel piatto  c’è un territorio, c’è una storia, ci sono persone che con fatica lavorano una terra  di montagna, dove le rese in agricoltura sono diverse dalla pianura. Sicuramente i turisti apprezzeranno e non si lamenteranno, anche se il prezzo è leggermente alto.

venerdì 22 aprile 2016

ADDIO ALLE QUOTE LATTE

 
Dal 1 aprile 2015 le quote latte non ci sono più.
La CEE ha deciso di eliminare i vincoli produttivi che hanno fatto impazzire per trenta anni i nostri agricoltori.
L’abolizione delle quote latte non è però un regalo all’Italia, nasce dalle esigenze e strategie di mercato dei più grossi produttori di latte come Germania e Olanda che da alcuni anni rispondono al crescente aumento mondiale di prodotti lattiero caseari, stimato del 2,1% all’anno nel prossimo decennio.
Tutto cominciò nel 1984.

La CEE, al fine di limitare le eccedenze di produzione di latte, introdusse un regime di quote che fissava i tetti massimi di produzione per ogni paese. Il superamento della quantità avrebbe comportato una multa pagata dal produttore.
All’Italia fu assegnata una quota pari a circa la metà del suo consumo, mentre a paesi come Olanda, Irlanda e Germania furono assegnate quote superiori al loro fabbisogno nazionale.

Erano gli anni del presidente Craxi, del ministro dell’agricoltura Pandolfi. Ci fu una sbagliata valutazione delle reali produzioni di latte perché non tutto il latte prodotto era dichiarato e l’Italia ebbe un assegnazione di 9 milioni di tonnellate, assolutamente inferiore alla reale produzione ma soprattutto inferiore al fabbisogno nazionale
 
Fu un grosso sacrificio da parte del governo italiano compensato in parte da vantaggi su altre produzioni come vino e agrumi, di cui il nostro paese aveva ingenti quantitativi di prodotto.
Le stalle comunque continuarono a produrre come prima, cioè in maniera superiore alle quote stabilite. Il ministro Pandolfi e a seguire i ministri successivi fecero capire agli agricoltori di non preoccuparsi, che nessuno avrebbe pagato multe. Ma la realtà si dimostrò diversa.

L’Italia, nei primi anni novanta fu multata di 7.800 miliardi di lire ridotti poi del 50%. Ovviamente lo sconto concesso da Bruxelles penalizzò gli altri comparti agricoli nazionali, sacrificati alla battaglia del latte.

Nel frattempo, fiorì il commercio delle quote, che creò speculazioni e arricchì soprattutto i mediatori.

Lo stato italiano non poté neppure pagare le multe al posto degli agricoltori perché la corte di Giustizia del Lussemburgo decretò che le multe non potevano essere pagate da uno stato, ma dagli agricoltori per evitare un aiuto di Stato distorsivo della concorrenza.
Iniziò così la protesta degli agricoltori, con la mucca Ercolina che arrivò dal Papa, coni trattori all’aeroporto di Linate, con il letame sulla Milano-Venezia.
Ma le multe rimasero e tra continui sforamenti, non rispetto delle quote, ricorsi, contratti di pagamento non firmati, si arrivò ad un compromesso con l’anticipo delle multe da parte dello stato italiano e successivo rimborso degli agricoltori in rate senza interesse.
La storia delle quote finisce con il 1 aprile 2015: le quote vengono eliminate dalle CEE, ognuno è libero di produrre tutto il latte che vuole … ma ancora oggi nelle casse dello stato italiano mancano 1,3 miliardi di euro.
Ma questi trenta anni di quote, di limitazioni, di battaglie , di ricorsi, di multe pagate e non ancora pagate cosa hanno portato all’agricoltura del nostro paese?

Vediamo:
· Il numero delle stalle è calato da 180.000 a 40.000.
· Il numero delle vacche da latte si è quasi dimezzato.
· La produzione di latte si è attestata intorno agli 11 milioni di tonnellate all’anno, non sufficiente a coprire la domanda interna e l’export del paese, che nel complesso richiede una disponibilità di 20 milioni di tonnellate.
· Le industrie italiane producono un milione di tonnellate di formaggi di cui 460.000 di prodotti DOP, tre milioni di tonnellate di latte alimentare, un miliardo e ottocentomila vasetti di yogurt e 160.000 tonnellate di burro.( dati Assolatte anno 2010).
· Le industrie di trasformazione e le catene di distribuzione però continuano a importare grosse quantità di latte, semilavorati, formaggi, cagliate, che sono trasformati industrialmente e diventano magicamente formaggi made in Italy.
Nel 2014 le industrie di trasformazione e le catene di distribuzione hanno importato un milione e 144 mila tonnellate di latte sfuso e oltre 510 mila tonnellate di prodotti caseari.
· Il prezzo del latte alla stalla è passato da 0,245 a 0,360 mentre il costo per il consumatore è aumentato da 0,40 a 1,5 euro con un ricarico del 371% dalla stalla allo scaffale (dati Coldiretti).
· Le esportazioni del 1990, circa 74.000 tonnellate di formaggio per un valore di 750 milioni di euro, nel 2014 superano le 330 mila tonnellate, per un fatturato di oltre 2,5 miliardi di euro, di cui 1 miliardo e 400 milioni di euro sono riferiti ai formaggi con riconoscimenti europei, gli unici formaggi prodotti obbligatoriamente con latte italiano, dimostrando l’importanza dei riconoscimenti europei come garanzia di tracciabilità nei mercati esteri.
L’aumento vertiginoso degli ultimi dieci anni dell’export dei formaggi italiani potrebbe far pensare che in un mercato senza quote gli agricoltori italiani potranno aumentare le proprie produzioni avendo la possibilità di mettere sul mercato notevoli quantitativi di latte in alternativa al latte o ai semi lavorati importati dall’estero.
 
Ma tutto questo non è vero, i caseifici italiani continueranno ad acquistare il latte ed i semi lavorati all’estero perché presenti sul mercato ad un prezzo più basso, prezzo assolutamente non competitivo per i nostri agricoltori. e il prezzo del latte estero si abbasserà ancora visto che i grossi produttori esteri avranno la possibilità di aumentare le loro produzioni, abbassando ulteriormente il prezzo del latte.
Oggi (fonte Coldiretti) tre cartoni su quattro di latte a lunga conservazione, sono stranieri senza che questo sia indicato in etichetta, le importazioni di formaggi simil-grana in Italia sono aumentate dell’88% negli ultimi dieci anni e almeno la metà delle mozzarelle vendute in Italia sono fatte con latte o con cagliate di importazione.
Dati impressionanti, destinati ad aumentare; le industrie italiane, spesso multinazionali straniere, difficilmente pagheranno un prezzo maggiore per un latte italiano per rispettare la ruralità del nostro territorio e continueranno a comprare latte e semilavorati dalla Germania o dai Paesi dell’Est come Polonia, o Ungheria, vendendo poi prodotti finiti come prodotti italiani.

E allora?

Esiste solo una strada che potrebbe portare vantaggi al nostro paese: l‘obbligatorietà dell’indicazione d’origine del latte su tutti i prodotti caseari.
Una proposta che la Coldiretti porta avanti da anni con forza e determinazione trovando grosse resistenze da parte di molte industrie casearie ma soprattutto dalla CEE che addirittura vorrebbe liberalizzare anche l’utilizzazione del latte in polvere per la produzione del formaggio nel nostro paese.
Eppure l’indicazione di origine è già obbligatoria per la carne, il pesce, la frutta e verdura e quando compriamo una vaschetta di fragole sappiamo subito se sono italiana o vengono dall’Egitto o dal Marocco .
Sarebbe corretto avere le stesse informazioni anche per un formaggio aggiungendo all’indicazione geografica del caseificio la dicitura “ formaggio prodotto con latte proveniente da….”

L‘obbligatorietà dell’indicazione d’origine del latte sui prodotti caseari imporrebbe ai caseifici una maggiore attenzione al territorio.

La consapevolezza che dietro a quel pezzo di formaggio ci sono lavoratori italiani anche nella produzione delle materie prima, c’è il rispetto e la valorizzazione dell’agricoltura di un territorio, c’è la certezza di una filiera corta, dovrebbe portare a un maggior numero di consumatori disposti a scegliere quel prodotto, magari anche a pagarlo maggiormente.

Nell’export, poi, l’indicazione geografica valorizzerebbe a pieno il vero Made in Italy. Chi ama i prodotti italiani non potrà che apprezzare quel determinato formaggio che è prodotto anche con latte italiano. Il continuo aumento delle esportazioni dei prodotti Dop ne è una felice conferma.

lunedì 28 marzo 2016

L'ALLEVATORE DI API REGINE



La passione per l’apicoltura di Marco Moretti, nasce da lontano, da quando, ancora bambino, aiutava il nonno. Poi lentamente l’amore per le api è diventato un lavoro che oggi si snoda tra la produzione di diverse tipologie di miele, l’allevamento e la vendita di nuove famiglie o di api regine.

“Un lavoro bellissimo”, mi dice, "sempre all’aperto, in ambienti naturali, luoghi particolari dove regna la tranquillità ed il silenzio è rotto solo dal brusio delle api. Un lavoro dinamico, dove ogni posizionamento delle arnie presenta delle caratteristiche diverse, dove la stagionalità ogni anno può cambiare e ti obbliga ad adeguarti. E così il tutto diventa una continua occasione di crescita, di perfezionamento, di scoperta di un mondo magico che non finisce mai di stupirti. Noi, poi siamo fortunati, abbiamo una varietà floreale che va dal fondo valle fino a 1800 metri con varietà di produzioni differenziate e riusciamo a produrre mieli di qualità, mieli delicati, ricchi di differenti sfumature di colori, di aromi, di sapori sempre più apprezzati dai consumatori .”

Mentre mi parla, mi mostra le arnie vicino a case da dove le api, con l’inizio delle temperature miti primaverili hanno già iniziato a visitare i primi fiori stagionali.

“... Riusciamo a differenziare le nostre produzioni, posizionando le arnie già dai primi caldi primaverili per produrre un Millefiori primaverile, di tarassaco, ciliegio, salice. E’ un miele chiaro, fresco, che cristallizza subito. Poi l’acacia, il tiglio, il castagno per arrivare a metà giugno con i posizionamenti in montagna per produrre millefiori di alta montagna o rododendro.”

Mi accompagna nel laboratorio e inizia a raccontarmi la parte del suo lavoro che ama maggiormente: creare nuovi nuclei, le nuove famiglie che saranno produttive l’anno successivo ma anche produrre api regine da vendere a chi vuole iniziare l’attività o che vuole incrementare il numero delle arnie.

“E’ un’operazione delicata.
 Preparo artificialmente delle regine selezionando regine madri che sono testate per docilità, produttività, igienicità, fattori importantissimi per produrre mieli di qualità. Prendo le uova che sono state deposte da una regina che ho individuato, faccio il traslarvo, appoggio le uova singole nei copulini e inserisco una stecca di copulini all’interna di una famiglia orfana, che non ha la regina. Le api vedono le uova, capiscono che possono fare una nuova regina e iniziano il loro lavoro. Quando le celle sono chiuse, vengono prelevate, messe in incubatrice per sette giorni a 34 gradi. Dopo sette giorni le uova si schiudono e nascono le nuove regine vergini. Io controllo che non abbiano difetti fisici e dopo la marcatura con un pennarello sul dorso sono pronte per essere messe in un nucleo di fecondazione.”

Ascolto le sue parole senza interromperlo, come si ascolta una storia e mi viene in mente la protagonista del bellissimo romanzo di Cristina Caboni, ” la custode del miele e delle api”. Angelica, cantava alle api, parlava a questi magici insetti, ascoltava i brusii delle arnie, e le api si posavano sulla sua mano, le zampette danzavano sulla sua pelle facendole il solletico. Sorridendo penso che probabilmente anche Marco parli alle sue api regine.

“…Si crea così” continua “una micro famiglia, circa trecento api, che hanno il compito di custodirla. La regina poi esce per essere fecondata, torna nell’arnietta di fecondazione e poi compie sei/sette voli di fecondazione e accumula nella spermateca tutto il materiale spermatico che le servirà per tutta la vita. A quel punto dopo 11/12 giorni da quando è nata, controllo che abbia deposto le prime uova. Quella è l’indicazione che la regina e stata fecondata ed è pronta per essere venduta agli apicoltori.

La metto in un contenitore apposito, una gabbietta, con una decina di api della sua famiglia che l’accompagnano nel viaggio e finalmente la regina è pronta per essere inserita in una famiglia orfana.”
Mi mostra i vari attrezzi che usa, i populini, il casco con gli occhiali che usa per il traslarvo. Mi guardo in giro, il luogo di lavoro è ordinato, pulito, è lo specchio di una metodica di lavoro precisa, razionale … come quella delle api.

Poi mi parla dell’importanza delle api nell’impollinazione del melo ma anche per la perpetuazione della specie di tantissimi fiori che senza api potrebbero anche scomparire.

E poi ancora mi parla del rispetto degli agricoltori per le api, rispetto cresciuto negli ultimi anni, nato dalla consapevolezza che la qualità della frutta, dimensioni, profumo e sapore dipendono anche dal fatto che l’impollinazione sia fatta da un insetto pronubo.
Non manca di raccontarmi dell’importante attività che l’Associazione Apistica, di cui è un socio molto attivo, sta facendo sul territorio per valorizzare il settore, del laboratorio consortile, utilizzabile da tutti, che permette anche a chi ha solo poche arnie di avere un prodotto invasettato, perfettamente a norma che può vendere a chi vuole nel rispetto di tutte le normative produttive.

Mi parla dei corsi che l'associazione organizza per promuovere la cultura delle api, per motivare i partecipanti ad iniziare un' attività che può sicuramente dare grosse soddisfazioni, dove è possibile anche guadagnare con altri prodotti come la propoli, la pappa reale, il polline. Prodotti particolarmente ricercati dai consumatori sempre più informati delle caratteristiche salutari dei frutti dell’alveare.


Concludiamo la visita dell’azienda fermandoci nello spaccio di vendita. In uno scaffale si notano pochi vasetti di miele (quasi tutta la produzione 2015 è già stata venduta), in evidenza, appese alle pareti, bellissimi scatti diMarco.
Grandi foto che parlano di fiori, di arnie colorate,  che raccontano  il misterioso e  affascinante mondo delle api, che parlano di  un territorio dove la ricchezza di una flora naturale può ancora regalarci un prodotto unico.

Azienda apistica Marco Moretti
Via Fracia, 4
23030 Chiuro
Tel. 0342 - 48.20.30 
e-mail apimoretti@libero.it

la prima e ultima foto sono di Marco Moretti  gentilmente concesse