domenica 3 dicembre 2017

martedì 21 novembre 2017

ROBERTO, APICOLTORE BIOLOGICO




E' stato pubblicato sul nuovo blog  http://www.ilgustodelgusto.it il post di novembre  dedicato  ad un  giovane talamonese, produttore  di miele  per hobby , che ha deciso di certificare il proprio prodotto come  biologico.
L'occasione è utile  per fare chiarezza sul significato di miele biologico, non sempre conosciuto dai consumatori.


martedì 31 ottobre 2017

NUOVO BLOG





avviso tutti i lettori che dal 1 novembre 2017 le pagine di questo
blog   saranno meglio visibili e
leggibili sul nuovo sito 


il nuovo blog, con una diversa impostazione grafica  è stato anche

arricchito con nuove pagine che

spero possano essere apprezzate da tutti i lettori



sabato 14 ottobre 2017

110 ANNI, MA NON LI DIMOSTRA





  Cento dieci concorsi che dai primi anni del 900 hanno portato a Morbegno le migliori produzioni casearie della provincia di Sondrio. Commissioni di   esperti che hanno assaggiato, che hanno espresso giudizi per decretare il miglior Bitto d’annata, il miglior Valtellina Casera, il miglior Latteria. Un tempo le categorie erano anche: formaggio grasso tipo Bitto, formaggio semigrasso o magro. Ed è proprio in un verbale del 1910 che si vede come la valutazione del Bitto teneva presente alcune caratteristiche ancora oggi utilizzate per determinarne la qualità:
La Giuria, composta dai signori prof. Gorini della Scuola di Zootecnia e Caseificio di Reggio Emilia, Melazzini della cattedra di agricoltura, Molteni e Del Nero Tommaso, negozianti di formaggio di Morbegno, nel mentre ha dovuto riconoscere i pregi intrinseci del formaggio Bitto quali sapore delicato e profumato, morbideza e butirrosità  della pasta, ha pur dovuto rilevare i difetti non gravissimi quali: irregolarità d'occhiatura in generale, conservazione trascurata della cotica o crosta (muffe ,fenditure)   da parte di qualche espositore

Da diversi anni partecipo alla commissione d valutazione e ho visto sempre migliorare la metodica di valutazione.
Ricordo le commissioni in piedi intorno al tavolo all’interno della casera. Si valutava la partita, si tagliava una forma, si guardava l’occhiatura e poi si assaggiava esprimendo un giudizio globale. I giudizi erano semplici: buono, un po’ amaro, troppo amaro, un po’salato, salatissimo, odore sgradevole, profumo buono, profmo intenso senza declinare i vari odori percepiti, senza definire l’intensità dell’aroma . Esperienze positive  maturate anche insieme a persone che purtroppo ci hanno lasciato e che in questa occasione voglio ricordare: Il dinamico Campodoni, grande esperto zootecnico, il veterinario Caretta, la dottoressa Carini 
e la dottoressa Lodi del CNR, grandi esperte casearie, il professionale Colli, esperto battitore e per ultimo il sempre disponibile Aldo, l’uomo della casera.

Anni che hanno visto l’esposizione dei formaggi e quindi il lavoro della commissione, in posti diversi: nella casera comunale, nel locali della mensa sociale, nei vecchi locali della scuola materna di S. Antonio, nella chiesa di S. Antonio, nella palestra dell’Istituto Tecnico Commerciale, in una casera in cartongesso costruita al polo fieristico fino ad arrivare alla nuova struttura refrigerata che da una decina di anni viene montata e smontata e che quest’ anno è stata posizionata all’ingresso del struttura della mostra.

Negli anni 90, dopo il primo corso per assaggiatori di formaggio organizzato a Sondrio  il lavoro della giuria è diventato più impegnativo. Il giudizio globale è stato sostituito da una scheda studiata dall’ ONAF (Organizzazione Nazionale Assaggiatori Formaggi) utilizzata in tutti i concorsi nazionali, che permette una valutazione più dettagliata. Il 60% del punteggio viene assegnato alle caratteristiche gustative, il 30% all’aspetto visivo ed il rimanente 10 % alle le caratteristiche tattili.
Questo comporta che un formaggio pur visivamente non perfetto per un'occhiatura troppo grossa o assente e eccessiva o con la presenza di sfoglia, possa comunque essere premiato avendo ottenuto un punteggio altissomo per l'aspetto gustativo.
La sola visione della forma tagliata, non permette un giudizio corretto e spesso il visitatore che guarda i formaggi in esposizione si meraviglia del primo premio ottenuto da un formaggio con caratteristiche visive non perfette.




Vediamo allora in dettaglio come vengono assegnati i vari punteggi per la categoria Bitto.

- Esame esterno della forma per un totale massimo di 10 punti.  
La commissione esamina la partita presentata, composta da due forme, una delle quali scelta dal produttore per il taglio successivo. 
La valutazione tiene presente la cura prestata al formaggio durante la stagionatura. In particolare si valuta lo scalzo, che deve essere concavo con spigoli vivi. La crosta deve essere liscia, omogenea, non presentare screpolature, macchie, muffe.  

- Esame delle caratteristiche della pasta per un totale massimo di 30 punti.

La forma viene tagliata lungo la diagonale e si valutano le caratteristiche della pasta: il colore (da 4 a 10 punti), l’occhiatura (da 4 a 10 punti), la consistenza (da 4 a 10 punti). La pasta si deve presentare di un colore omogeneo dal bianco al giallo paglierino, senza sfoglie, strappi, lacrime. L’occhiatura deve essere non eccessiva, piccola e rada. La consistenza viene valutata al tatto, con una leggera pressione delle dita. Per un bitto giovane la barretta di formaggio, tagliata verticalmente in modo di lasciare sia la crosta superiore che inferiore, deve mostrarsi al tatto morbida e leggermente elastica. 

- Esame olfattivo e gustativo per un totale di 60 punti.
  Si esprime un giudizio sull’odore percepito con il naso e l’aroma percepito in bocca, utilizzando anche la retroolfazione dopo una lenta masticazione (massimo 20 punti). Si cerca di definire gli odori, per poter capire se appartengano alle caratteristiche di tipicità del prodotto e che comunque non devono creare sensazioni sgradevoli, odore eccessivo di stalla ,di animale. Si passa al sapore (dolce, salato, acido e amaro), muovendo i pezzettini rotti con la masticazione su tutta la lingua che percepisce le sensazioni di sapidità in punti diversi (massimo 20 punti). Infine le caratteristiche strutturali che il formaggio presenta durante la masticazione: durezza, plasticità, friabilità, solubilità, adesività, granulosità (massimo 20 punti).
Gli odori devono essere piacevoli, tipici, creando sensazioni armoniche. Così anche il sapore deve dare piacevolezza in bocca. Le sensazioni di sapidità devono essere in equilibrio. L’amaro, l’eccesso di salinità o di acidità penalizzano notevolmente il punteggio. La struttura deve essere morbida, solubile, non adesiva e granulosa.
I giurati, tutti formati attraverso i corsi dell'ONAF, seduti intorno ad un tavolo, ricevono il campione di formaggio e dopo attenta valutazione esprimono il proprio giudizio per le sette caratteristiche precisate sopra. Segue una breve discussione, alla fine il presidente, facendo sintesi delle varie osservazioni propone un punteggio che può essere condivisi o meno, In caso di mancata di pareri diversi , succede raramente,  viene assegnato il punteggio espresso dalla maggioranza.
La  sommatoria  del punteggio delle  sette caratteristiche determina il punteggio finale che generalmente va da 60 a 80.

La commissione  ha  poi la facoltà di proclamare il Bitto Super nell'eventualità che un formaggio abbia raggiunto  un punteggio molto alto :85/95.
Come si può vedere i giudizi riportati nel verbale del 1910 non sono cambiati, sono stati sostituiti da giudizi più analitici e dettagliati, ma anche la valutazione attuale premia i formaggi che hanno un sapore delicato, un odore piacevole, una particolare morbidezza e butirrosità, un’occhiatura corretta e la mancanza sulla crosta di fenditure e muffe, come specificato nel verbale d allora.






venerdì 28 luglio 2017

NON HO PAURA DELLO ZEBÙ




Nel rapporto Italia 2017 Eurispes si evidenzia che nell’acquisto di beni alimentari gli italiani prediligono i prodotti Made in Italy (74,1%) e che il 53,1% acquistano spesso prodotti con marchio Dop, Igp, Doc. Ad essere privilegiati sono i prodotti a km zero (59,3%) e quelli di stagione ( 80,4%). Più basso invece il numero (39,4%) di chi acquista spesso prodotti biologici.

Il rapporto non specifica le motivazioni di queste scelte ma una ricerca di mercato, la Global Brand-Origin Survey realizzata da Nielsen nel 2015 ci dice che gli italiani vedono nelle produzioni tricolori soprattutto affidabilità (46%), genuinità degli ingredienti e dei processi di preparazione dei prodotti (29%). A questo si aggiunge il pensiero volto al supporto delle aziende locali con effetto positivo sull’economia del paese (61%).
Questa predilezione da parte dei consumatori per il Made in Italy è diventata un grande incentivo per i produttori per un’ attenta ricerca e valorizzazione delle materie prime italiane che spesso pubblicizzano con bandierine tricolori o diciture scritte in caratteri che spiccano tra tutte le informazioni dell’etichetta.

Una dichiarazione che in realtà non rappresenta nessuna garanzia di qualità. Dietro la bandierina italiana non c’è infatti nessun disciplinare di produzione, nessun regolamento che specifichi come è stato realizzato quel prodotto. Solo la certezza che  è stato lavorato in Italia. Così sull’etichetta di un olio evo troviamo diciture diverse “prodotto con olive italiane”, “ prodotto italiano”, “ 100% italiano” o la classica bandierina tricolore. Ma dietro queste scritte non c’è nessuna garanzia di maggiore qualità, non c’e nessuna certezza che la coltivazione delle olive avvenga senza uso di fitofarmaci o diserbanti o con quantità minori rispetto a produzioni di altri stati. Solo la sicurezza che le olive sono italiane e la filiera produttiva produce lavoro agli italiani. Spesso, poi, queste diciture sono maggiormente evidenziate rispetto ad altre sicuramente più importanti come “prodotto biologico” o addirittura la bandierina italiana è più grande del logo “ “biologico” o “ igp”.

Su alcune confezioni di tonno ho trovano  bandierine italiane per pubblicizzare la lavorazione del tonno avvenuta in uno stabilimento italiano ma difficilmente quel tonno è stato pescato nei nostri mari . Eppure la bandierina italiana è particolarmente evidente.

La preferenza dei prodotti italiani diventa sicuramente una grossa opportunità per l’incremento dell’occupazione in un settore, l’agroalimentare, sempre più vivo sopratutto a livello di esportazioni. E giustamente, dopo il successo dell’etichettatura dei prodotti caseari, non si può che condividere e sostenere le battaglie della Coldiretti per avere etichettature d’origine della materia prima anche per altri prodotti come pasta, riso e salumi.

L’incremento occupazionale nel settore agroalimentare passa però anche attraverso la produzione di alimenti che non sempre è possibile realizzare con materie prime italiane per la mancanza delle stesse sul nostro territorio, ma che comunque vengono lavorate in laboratori italiani.
La ricerca e l’importazione della materia prima da paesi europei o extra europei diventa allora condizione indispensabile per la continuazione e l’incremento di produzioni che garantiscono comunque occupazione.
Produzioni che per la loro storia, per la loro lavorazione tradizionale perpetuata nei secoli hanno avuto il privilegio di essere riconosciuti a livello europeo con l’IGP, indipendentemente dalla provenienza della materia prima.

Mi riferisco alla Bresaola Valtellina, salume che ha ottenuto l’IGP, proprio per la sua storia, per il suo radicamento sul territorio fatto da piccole macellerie presenti capillarmente nei nostri paesi e da industrie che mantenendo la tradizione nella lavorazione, sono riuscite a far conoscere questo salume in tutto il mondo. Un prodotto Made in Italy anche se la materia prima non è nazionale, perché tutto il processo produttivo è fatto in Italia, in Provincia di Sondrio, utilizzando maestranze italiane e perpetuando un processo produttivo che è assolutamente locale.

Il mercato della produzione della bresaola è un settore importante per l’economia della provincia di Sondrio, riuscendo ancora a creare un migliaio di posti di lavoro tra dipendenti delle varie industrie e le piccole macellerie, per la produzione di un salume che merita tutte le attenzioni particolari per la sue caratteristiche dietetiche, per la sua magrezza e la ricchezza di principi nutritivi a basso tenore calorico.

Brisaola e bresaola artigianali prodotte con carni locali, che i turisti trovano quando vengono nel nostro territorio o bresaola industriale, prodotta con carni provenienti da paesi lontani, ma comunque sempre di qualità per poter realizzare un prodotto unico, sempre più apprezzato dai consumatori attenti alle caratteristiche dietetiche dei salumi che utilizzano nei loro pasti.

Non mi sono mai scandalizzato per l’utilizzazione della carne proveniente dal mercato estero, non mi ha mai spaventato la parola Zebù, anzi ho sempre riconosciuto il valore di una carne di animali allo stato brado, per le sue caratteristiche di magrezza ma se volete anche di genuinità.

Per la bresaola IGP vengono usati tagli di prima categoria, i più pregiati e teneri, tratti esclusivamente dalla coscia di bovini di razze selezionate, preferibilmente allevati all’aperto e al pascolo e nutriti con alimenti selezionati, di età compresa tra i 18 mesi e i 4 anni. Tutto questo è scritto nel disciplinare di produzione. La qualità prima di tutto, perché tutti questi fattori contribuiscono ad assicurare carni migliori, sia dal punto di vista organolettico, ad esempio per consistenza, morbidezza, gusto, colore, magrezza e assenza di nervature, sia da quello nutrizionale ad esempio per un minor contenuto in grassi. E tutto questo indipendentemente dalla provenienza della carne, sia essa europea o del sud America.

Ho sempre acquistato la bresaola perché è un prodotto versatile, perché dietetico, perché se volete anche economico se rapportato al valore nutritivo, ma anche perché dietro quella fetta c’è una storia di generazioni, c’è un continuo affinamento di una storia antica che è iniziata tanti anni fa, di un'arte valtellinese riconosciuta anche fuori dalla nostra provincia.

Alcuni anni fa ho partecipato  al Salone del Gusto di Torino. Ero stato incaricato dal Distretto Agroalimantare Valtellina e tenere alcune degustazioni relative alle eccellenze agroalimentari valtellinesi. Preparavo un piattino con alcune fette di bresaola, con il Bitto di due stagionature diverse, con il Valtellina Casera sempre di due stagionature diverse, con alcune fette di mele, e un pirottino contenete il miele. Era un modo per presentare i nostri prodotti, ma soprattutto per raccontarli. Durante una degustazione, quando ho iniziato a parlare della bresaola, sono stato interrotto da un partecipante alla degustazione che poi si è definito giornalista enogastronomico.

Venite a presentare come eccellenza della Valtellina un prodotto fatto con carne che viene dal Sud America. Vergognatevi.” Mi ha detto alzando la voce.
Io ho subito detto che non avrei mai nascosto la provenienza della carne, ho spiegato perché la Bresaola, pur prodotta con carne brasiliana, era riuscita ad avere il riconoscimento IGP non solo per la sua storia, ma anche per la qualità del prodotto finito e poi l’ho invitato a seguire la degustazione. A chiudere gli occhi, a sentire l’odore, a masticare piano, a utilizzare la retroolfazione, a descrivere le sensazione.
Poi ho chiesto:
“ Cosa ha sentito ? il Brasile?”
Si è messo a ridere.
“ No, ho sentito la carne fresca, anche un leggero sapore di montagna” ha detto tutto serio.
“ Ecco, appunto, la Valtellina” ho risposto.
C’è stato un applauso che mi ha anche quasi commosso.
Poi ho spiegato al giornalista che il patrimonio bovino della provincia di Sondrio è di circa 30.000 capi, di cui 17.000 vacche da latte non adatte a produrre carne per la bresaola. Vacche, allevate in stalle, poche a stabulazione libera e che comunque anche se utilizzate per la produzione di bresaole riuscirebbero a coprire una percentuale bassissima di produzione.

La produzione di bresaola nel 2016 è stata di 18.000 tonnellate di cui 12.700 con indicazione IGP.
Da un bovino di 3/4 quintali si ricavano circa 50 kg. di tagli utilizzabili per produrre bresaola. Per la precisione circa 38 kg di fesa, magatello, sottofesa, noce, scamome e 12kg di punta d’anca.
Quindi solo con circa 2.000.000 di capi potremmo coprire il nostro fabbisogno di carne per produrre una bresaola valtellinese.
E non sarebbe recuperabile neanche dal mercato italiano che importa circa 318.000 tonnellate di cane fresca e refrigerata e 19.000 tonnellate di carne congelata dai paesi europei, 18.000 tonnellate di cane fresca e refrigerata e 28.000 tonnellate di carne congelate da paesi extra europei per un totale di quasi 400.000 tonnellate di carne bovina. ( dati 2016).
E allora? Non produciamo più bresaola? Chiudiamo gli stabilimenti che vedono negli ultimi anni un aumento di produzione? Licenziamo i dipendenti?

Ben venga lo zebù, bovino allevato allo stato brado, alimentato in modo naturale, con grandi spazi su cui pascolare. Carne importata dal Brasile accompagnata da severe certificazioni.

Negli ultimi giorni è stato riportato sulla stampa nazionale l’accordo tra Filiera Agricola Italiana promossa dalla Coldiretti e Rigamonti Spa per realizzare un interessante progetto con lo scopo di incrementi la produzione di bresaola prodotta con carne Italiana. L’accordo stipulato ha l’obiettivo di arrivare entro tre anni alla macellazione di almeno 30mila capi provenienti da bestiame nato, allevato e sezionato in Italia secondo regole e prezzi concordati. "Per la bresaola tutta italiana – dice Alberto Marsetti, presidente della Coldiretti di Sondrio – vogliamo arrivare presto alla produzione di 500.000 bovini all’anno. Si creerà lavoro e soprattutto verrà ricostruita la filiera della carne italiana, ormai quasi scomparsa".
Ottimo. 
Una bella notizia per i consumatori ma soprattutto per l’agricoltura italiana. Sicuramente un progetto che può aumentare l’occupazione italiana in un settore, quello agricolo, che già da alcuni anni è l’unico settore in crescita occupazionale. Un progetto che forse riuscirà nel tempo a chiudere le continue polemiche che la stampa specializzata dedica al nostro salume, spesso denigrandolo solo perchè prodotto con carne straniera dimenticandosi di citare le caratteristiche organolettiche e soprattutto le caratteristiche nutritive, dietetiche del prodotto.
Ma nel frattempo continuiamo a consumare Bresaola Valtellina IGP prodotta esclusivamente con carne ricavata dalle cosce di bovino dell'età compresa fra i due e i quattro anni, con muscoli più teneri e magri rispetto a quelli nostrani, con la certezza della qualità, garantita dai numerosi controlli sanitari ed esami di laboratorio eseguiti lungo tutto il processo produttivo sul salume e soprattutto certificato dal controllo dell’ente terzo di controllo (CSQA Certificazioni)

venerdì 19 maggio 2017

TRE GENERAZIONI UNITE PER PRODURRE L' OLIO DELL'ELFO

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Si chiama olio dell’Elfo e nasce dalla prima piantagione di ulivi messi a dimora in bassa valle nel 1999. L’etichetta verde, con un piccolo elfo che tiene in mano un rametto di olive  dice “colline degli Elfi dal 1999 - olio extra vergine di oliva - Azienda agricola Folini - Ardenno.
Ma assolutamente nessun riferimento alla mitologia nordica, e nemmeno al simbolo dell’aria, del fuoco e della terra. Semplicemente le iniziali di Elisa Folini, giovane figlia di Giuseppe e nipote di Cesare nata nel 1999. La terza generazione di una famiglia che ha creduto nell’innovazione e che alla fine degli anni 2000 ha sostituito le viti di un terrazzamento con una piantagione di ulivi.
Tre pertiche di terreno, sedici gradoni, calpestati per anni dall’anziano Cesare che ha sempre avuto una grande passione per la sua vigna ma che purtroppo l’età avanzata ha richiesto un radicale cambiamento.
“Una sfida che ho voluto tentare perché ero stanco della vigna, anche se sinceramente mi è dispiaciuto cambiare.” Mi racconta Cesare “Ero affezionato, ma la vigna costa troppa fatica, poi è soggetta a diverse malattie, gli ulivi sono più resistenti, richiedono meno attenzione, così ho deciso.
Era il 1998, grazie ad un contributo della Comunità Montana ho iniziato a estirpare le viti e a sostituirle con ulivi. Ho iniziato con 70 piante che venivano da Pistoia,  poi altre 70  fino ad arrivare a 140  alberi da frutto che dovrebbero fruttare in piena produzione  3 tonnellate di olive a raccolto.  Inizialmente volevo metter piccoli frutti, ma poi l’ulivo mi ha’affascinato. Mi dicevano tutti, che ero un po’ matto ma io son andato avanti, scontrandomi anche con le gelosie dei produttori del lago cui avevo chiesto informazioni per iniziare.  

Devo ringraziare l’amico Fulvio Briotti di Chiuro che possiede due uliveti in Toscana che mi ha consigliato e aiutato. Ricordo ancora il primo olio prodotto, erano tre litri, che non posso neanche dire che derivasse dalle mie olive.
La quantità di olive era così limitata che nel frantoio di Lenno sono state miscelate con altre olive della zona del lago. Per avere il  mio olio ho dovuto aspettare altri anni, quando ho avuto una produzione più alta, circa due quintali.”
Poi mi mostra con orgoglio una fotocopia di un articolo di un vecchio numero di “ Centro Valle” che parla di lui, che racconta la sua storia.

“SPUNTA IL PRIMO ULIVETO IN VALLE,  … chissà mai che fra qualche anno, fra le bresaole, i vini, i formaggi, le mele di Valtellina non compaia anche sul mercato l’olio di oliva  e chissà che come quello per esempio prodotto sulle rive del lago non riesca ad entrare nel paradiso dei prodotti doc. Nessuno l’avrebbe mai detto ma anche in Valtellina è possibile coltivare ulivi e avere ottimi frutti...
 Toglie dalla cartelletta di plastica un'altra fotocopia. “ E’NATO IL PRIMO OLIO VALTELLINESE  .… Quest’anno e nato il primo olio  di oliva  interamente nostrano prodotto sui nostri terrazzamenti che per anni hanno accolto vigneti. Il raccolto è stato eccezionali, 178 kg per produrre 25 kg di ottimo olio spremuto presso il frantoio di Lenno in provincia d Como … Mette con cura in una cartelletta di plastica le due fotocopie e continua a raccontarmi della sua piantagione “… ma ormai sono vecchio, non riesco neppure ad andare a trovare le mie piante, tutto è passato nelle mani di mio figlio Giuseppe e di mia nipote Elisa.”
Giuseppe ha ascoltato in silenzio la nostra conversazione, senza mai interrompere, rispettando e condividendo le parole del padre, poi m’invita a fare una passeggiata tra gli ulivi. E lì in mezzo al verde delle piante dove i piccoli boccioli floreali incominciano ad aprirsi, mi mostra le creature del nonno, passate sotto le sue attente cure.  Ormai sono passati quasi vent’anni, la produzione è aumentata, non sono più i 178 chilogrammi, il raccolto 2016 è stato di 12 quintali con una produzione di circa 120 litri di olio.
“ Ho dovuto, eliminare diverse piante, erano state messe troppo strette e delle 140 iniziali sono arrivato a 110,  dovrei toglierne ancora, ma mi dispiace, mi piange il cuore dover tagliare altre  pianta”.  Poi mi mostra il sistema di potatura adottato che tende a privilegiare la parte esterna della pianta, liberando la parte più interna in  modo da portare la fruttificazione nelle zone più esposte al sole.
“Ci vuole tempo, per fare un buon lavoro” mi dice “ ma la potatura è molto importante  per avere una produzione maggiore e soprattutto per avere olive di qualità. Io sono un metalmeccanico, ho imparato da solo, leggendo libri, cercando su internet, chiedendo informazione a chi è più esperto. La potatura e la raccolta sono i lavori più impegnativi,  poi occorre tagliare l’erba, qualche trattamento  a base di rame, dopo la raccolta e dopo la potatura, non sempre necessari,  comunque sicuramente meno impegnativo della vite.”
Camminiamo in mezzo alla piante, su questi gradoni, realizzati anticamente, che hanno sempre visto le radici delle vite e che oggi iniziano a vedere una coltivazione diversa. Attorno a noi si vedono alcune vigne coltivate, altre abbandonate, trasformate in bosco. Penso alla fatica di nonno Cesare nel estirpare le viti, nel preparare le buche per il nuovo impianto, nel trasportare il letame con la gerla per la concimazione. Ma penso anche alla soddisfazione di Giuseppe nel lavorare un terreno che viceversa sarebbe stato abbandonato, destinato ad un degrado pericoloso.
Giuseppe mi parla ancora della necessità di collaborazioni con le istituzioni, con le associazioni, dell’importanza della Fojanini,  della Comunità Montana nell’organizzare i corsi per la potatura, soprattutto per tutti i giovani che vogliono iniziare, della necessità di avere un frantoio più vicino, utilizzabile da tutti i produttori del nostro territorio, per abbassare i costi ma anche per avere un’immagine più completa dell’olio della Valtellina. Ma soprattutto insiste sull’importanza di incentivare questa coltivazione per evitare l’abbandono dei terrazzamenti dove la coltivazione della vite risulta antieconomica, per creare una risposta concreta nella difesa del territorio e nel creare un ambiente anche bello dal punto di vista estetico. Poi il discorso si sposta sull’aspetto economico. “Io sono soddisfatto” mi dice “riesco a vendere tutto il mio prodotto, a sapori di montagna, una azienda di distribuzione di prodotti tipici, senza più preoccuparmi della vendita diretta.  Il prezzo è buono, potrebbe essere anche di più, se paragonato a quello degli oli del Lago che solo perché hanno la Dop sono venduti a 30 euro al litro.  La qualità del nostro olio è elevata. Non hanno niente da invidiare alle dop del Lario.  I nostri costi sono alti. Partiamo da un costo  per l’estrazione di 20 euro ogni quintale di olive, cioè circa 2 euro ogni litro d’olio, poi c’è la  bottiglia, l’ etichetta, il  trasporto … Però io sono contento.”
Sorride e mi parla del suo sogno: creare una piccola azienda per la figlia Elisa, giovane studentessa dell’istituto tecnico agrario. “ Oltre l’uliveto, abbiamo una decina di capre camosciate, mi piacerebbe aumentarle, creare una stalla di una quarantina di capi, mettere una decina di arnie che potrebbero anche essere utili per le piante di ulivo, e così formaggio, olio, miele, potrebbero portare un reddito per una ragazza che ha la passione per l’agricoltura.” Lasciati gli ulivi Giuseppe mi presenta Elisa, la terza generazione di una famiglia  ancora legata all’agricoltura. Elisa  sta  finendo la lavorazione di una piccola cagliata derivante dal latte di capra ed è pronta  per andare con il padre a mungere le capre. Le chiedo “dove ti vedi tra dieci anni ?” Mi sorride, i suoi occhi verdi si illuminano, ci pensa un po’ e poi mi dice “in un’azienda mia, dove poter produrre formaggi caprini, miele e naturalmente  l'olio extravergine dell’Elfo”  


 



martedì 18 aprile 2017

FINALMENTE SAPREMO DOVE E' STATO MUNTO IL LATTE CHE BEVIAMO QUOTIDIANAMWNTE



Da domani 19 aprile 2017, in Italia, entra in vigore l’obbligo di indicare sulle etichette del latte e dei prodotti lattieri caseari “preimballati” l’origine della materia prima, cioè lo stato dove è avvenuta la mungitura del latte, in applicazione al decreto ministeriale 09.12.2016: “Latte e prodotti lattieri caseari, indicazione origine in etichetta.”
Fino ad oggi l’obbligo dell’indicazione di origine per i prodotti caseari riguardava solo il latte fresco, e non c’era per il latte a lunga conservazione e per il latte utilizzato come materia prima in altri prodotti (formaggi, latticini, yogurt, burro).
Fino ad oggi sulle confezioni di questi prodotti compariva solo lo stabilimento di confezionamento ma nessun obbligo per l’origine del latte.

Il nuovo decreto definito “un passo storico” dal ministro delle politiche agricole Martina dovrebbe portare finalmente chiarezza su tutte le confezioni di latte, permettendo al consumatore di capire dove il latte è stato munto e dovrebbe anche aiutare un settore che ha visto negli ultimi anni una grossa crisi di redditività derivante dal fatto che le industrie casearie italiane preferiscono importare il latte dall’estero a un prezzo più basso, evitando di acquistarlo dalle nostre aziende.
Ma soprattutto dovrebbe tutelare maggiormente i consumatori nella difesa di quel Made in Italy, che permette ogni anno una sempre crescente esportazione dei nostri prodotti.
Consumatori attenti, che ricercano sempre più prodotti italiani veri, che hanno imparato il significato di chilometro zero, di filiera corta, di italian sounding, che acquistano i prodotti DOP e IGP perché garanzia di qualità della materia prima utilizzata, che sono disposti anche a pagare di più in nome della qualità.
Una consapevolezza che negli ultimi anni ha invogliato diversi produttori a utilizzare materie prime italiane per poi pubblicizzarle con la dicitura a grandi caratteri “ prodotto italiano” o mettendo sulle confezioni la bandiera italiana.

Oggi (fonte Coldiretti) tre cartoni su quattro di latte a lunga conservazione, sono stranieri senza che questo sia indicato in etichetta; almeno la metà delle mozzarelle vendute in Italia sono fatte con latte o con cagliate di importazione. Tutto questo senza che il consumatore possa saperlo perchè la legislazione fino a ieri, imponeva l’obbligo della tracciabilità della produzione, ma non la provenienza della materia prima.

E’ ovvio che le industrie italiane, spesso multinazionali straniere, difficilmente cambieranno i loro fornitori abituali del latte, pagando un prezzo maggiore per un latte italiano e continueranno a comprare latte e semilavorati dalla Germania o dai Paesi dell’Est come Polonia.
Ma da domani 19 aprile 2017, il consumatore attento potrà sapere la provenienza del latte, leggendo la dicitura: Paese di mungitura del latte: ... e decidere quale acquistare.
 Sapere che dietro quel cartone di latte anche a lunga conservazione c’è la certezza di una filiera corta, potrebbe portare un maggior numero di consumatori ad acquistare quel prodotto penalizzando le confezioni prodotte con latte proveniente dall’estero e di conseguenza modificare le linee produttive delle grandi industrie.
L’iniziativa, portata avanti anche dalla Francia, riguarderà però solo le produzioni agricole del settore caseario Italiano o francese e non i prodotti confezionati in paesi stranieri.
Acquistando un prodotto lattiero-caseario il consumatore dovrà prima di tutto fare attenzione al simbolo ovale che potrà trovare sulle confezioni.
Vediamo alcuni esempi.
Su una confezione di latte a lunga conservazione o di una mozzarella o anche di Yogurt troviamo:
 
Dove DE significa Germania, BY significa Baviera seguito dal numero di riconoscimento dello stabilimento e in basso la sigla della Comunità Europea (in Germania: “EG”).
Il prodotto viene dalla Germania; il produttore è obbligato a indicare l’indirizzo e il nome dell’azienda di produzione, ma nessun obbligo di indicare l’origine del latte. Potrebbero essere confezionato utilizzando anche latte non tedesco proveniente da altri paesi anche non europei, magari con norme sui controlli igienici sanitari moto permissivi.
Ecco un'altra confezione:
Dove IT significa Italia , 03 è il codice della Regione (es. 01 = Piemonte, 02 = Val d’Aosta 03 = Lombardia, 05 = Veneto ecc). seguito dal numero di riconoscimento dello stabilimento e in basso la sigla della Comunità Economica Europea.
Ma in questa confezione oltre l’indirizzo e il nome dell’azienda di produzione, troveremo da oggi la nuova dicitura con il paese di mungitura.
 Paese di mungitura: Italia
In questo caso il consumatore avrà la certezza che in questa confezione il latte usato è solo Italiano e che il suo acquisto potrà considerarsi un contributo al sostegno dell’agricoltura Italiana.
In un'altra confezione possiamo trovare sempre il bollino ovale con le stesse indicazioni di prima


Ma a seguire:
paesi di mungitura : latte di paesi UE
paese di trasformazione : Italia
Il prodotto è stato trasformato in Italia esattamente in Lombardia ma il latte proviene da paesi europei non definiti.
C è poi un terzo caso dove potremmo trovare,
paesi di mungitura : latte di paesi non UE
paese di trasformazione : Italia
o ancora
paesi di mungitura : latte di paesi UE e non UE
paese di trasformazione : Italia

Va infine purtroppo segnalato, che guardando le prime etichette  già conformi al nuovo decreto, non si può fare a meno di notare che le nuove diciture non sono subito visibili, e che purtroppo nei nostri supermercati ci sono moltissimi prodotti con la dicitura paesi di mungitura: latte di paesi Ue.


leggi anche :

ADDIO ALLE QUIOTE LATTE post del  22/04//16
CONTINIUAMO A PRODURRE  IL FORMAGGIO  CON LATTE VERO post del 18/7/2015


domenica 19 marzo 2017

UN NUOVO "ROSSO" DI VALTELLINA




Un tempo negli orti della  Valtellina si coltivava  lo Zafferanone, un “cugino” dello zafferano: il cartamo.  Una spezia con un potere amaricante moto più basso dello zafferano.

Si dice invece che a Poggiridenti, negli anni trenta/quaranta, in qualche orto fosse coltivato il vero zafferano (Crocus Sativus) quasi di nascosto, perché c’era la convinzione che la coltivazione fosse vietata per una specie di monopolio di stato in vigore sul territorio nazione.

Nei primi anni 2000 la Fondazione Fojanini di Sondrio, all’interno di un progetto d’incentivazione di colture alternative, inizia una sperimentazione della coltivazione dello zafferano, organizzando anche momenti di formazione specifici, che negli ultimi anni hanno visto un’attenta e importante partecipazione di giovani, molto spesso occupati professionalmente in settori diversi dall’agricoltura.

La facilità della coltivazione, l’apprezzamento del processo produttivo considerato ecologico, pulito, sostenibile, adatto alla sensibilità e delicatezza femminile, la possibilità di utilizzare terreni marginali, abbandonati o ancora la potenziale redditività della coltura, sono sicuramente i  motivi che hanno spinto sempre più giovani a interessarsi a questa çoltivazione

Così dai primi metri quadrati sperimentali della Fojanini, oggi in provincia di Sondrio si calcolano circa 8.000 metri quadrati di coltivazioni suddivisi in piccoli appezzamenti, spesso destinati a uso familiare, ma anche con alcuni produttori che hanno iniziato ad aumentare la superficie destinata alla coltivazione, a completare il ciclo produttivo con il confezionamento e la vendita, a eseguire le analisi per offrire al cliente un prodotto di qualità.


 "Era un vigneto terrazzato abbandonato, che lentamente si stava trasformando in bosco, ma nel rispetto della storia, del lungo e faticoso lavoro di lontane generazioni che hanno strappato la terra alla roccia, non si poteva lasciarlo trasformare in bosco.
Così ho deciso di intervenire e iniziare una coltivazione alternativa che mi aveva affascinato: la coltivazione dello zafferano.
"


Inizia così a raccontarmi Alessandro Gusmerini, geometra ma con la passione per la terra, con il desiderio di valorizzare un piccolo territorio, di salvarlo dall’abbandono, dall’erosione.
La sua è sicuramente un’esperienza che merita di essere raccontata.

“L’interesse per la coltivazione dello zafferano è nato per caso guardando un documentario alla televisione. Poi mi sono informato e grazie anche all’aiuto della Fondazione Fojanini ho iniziato con un piccolo campo sperimentale mettendo a dimora 200 bulbi. Il risultato è stato incoraggiante. Ho mandato il prodotto a Edolo per le analisi ed ho avuto subito la prima soddisfazione: i miei pistilli classificati  in prima categoria, massima consentita, prodotta di qualità.
Mi sono convinto che i presupposti per andare avanti c’erano e l’anno successivo ho messo a dimora 4000 bulbi.
La scelta del terreno mi ha portato ha valorizzare a Pedemonte una vecchia vigna di famiglia abbandonata da venticinque anni e ormai diventata bosco. 
Certo avrei potuto iniziare in un terreno diverso, magari più vicino a casa (io abito a Delebio) evitando i lunghi viaggi ma
  la soddisfazione di vedere i primi fiori color lillà   mi ha ripagato della fatiche.
Poi continua a spiegarmi le cure agronomiche dello zafferano, che non richiede tecniche di lavorazione particolari, che si adatta in tutti i terreni sufficientemente drenati (i bulbi richiedono terreni asciutti), che ama il sole ma si adatta anche alle zone ombrose, che non soffre il vento e la siccità. Operazioni semplici: una vangatura o aratura  in profondità, correzione dell’acidità del terreno con un po’ di cenere, concimazione organica quando si ara il terreno per il posizionamento dei bulbi seguita da una concimazione superficiale ogni anno a gennaio per permettere un buon rinvigorimento e l’ingrossamento dei bulbi, pulizia delle erbe infestanti, raccolta dei fiori, essicazione dei pistilli.

“La coltivazione dello zafferano richiede solo tanta pazienza.” continua Alessandro “La lentezza è il fattore determinate nella coltivazione. Anche la scelta dei bulbi è fondamentale, devono essere di una certa dimensione. Più il bulbo è grosso più farà fiori grossi e un maggior numero di fiori. Ogni bulbo singolo può produrre dai tre ai cinque fiori (ogni fiore contiene sempre tre pistilli). Partendo da bulbi grossi si avranno poi, negli anni successivi, i figli del bulbo madre più grossi, quindi più produttivi. Il picco massimo di produttività si ha verso il quarto anno. L' inizio della nuova coltivazione, decorsi 4/5 anni, presuppone il cambio del terreno ma non dei nuovi bulbi; si utilizzeranno infatti quelli cavati dal terreno "vecchio"; a quel punto si potrà anche decidere se rimetterli tutti a dimora o rivendere eventuali eccedenze.
Non ci sono grossi problemi nella coltivazione, occorre solo passione e tanta mano d’opera perchè tutte le operazioni vanno fatte lentamente e manualmente. Così l’eliminazione delle erbe infestanti va fatta adagio, facendo attenzione a non muovere i bulbi. La fioritura dura anche un mese e  la raccolta deve essere fatta tutti i giorni, la mattina presto. Prima del sorgere del sole e soprattutto prima che il fiore si apra. Se aspetti il giorno dopo l 'esposizione agli agenti atmosferici dei pistilli ne compromette la  qualità. La raccolta inizia a metà ottobre e va fatta rigorosamente a mano, strappando delicatamente il fiore con due dita. La separazione del pistillo avviene dopo su un tavolo. Si aprono i fiori e si staccano i pistilli. E’ un lavoro certosino, il pistillo è attaccato a un filamento bianco, se vuoi un prodotto di qualità, devi staccare solo il pistillo rosso, eliminando il filamento bianco. Ovviamente la resa è minore, ma la qualità è indubbiamente superiore e giustifica anche il prezzo maggiore. Il consumatore esperto vuole solo il prodotto senza filamenti.
I pistilli sono ora pronti per l’essicazione. Anche questo è un lavoro che richiede molta attenzione, In Iran e Marocco, si utilizza il sole, in Sardegna si fa sulle braci,  da noi si usa  il forno di casa, ma il sistema più sicuro e dotarsi di un piccolo essiccatore. La perfetta essicazione è determinante per avere un prodotto di qualità. Il processo non deve superare i 45 gradi C., oltre questa temperatura i pistilli si rovinano, si bruciano e non possono più essere commercializzati."

Poi la nostra conversazione si sposta sull’aspetto economico. Alessandro sorride,

"Chi coltiva lo zafferano lo fa per passione, difficile diventare ricco. I 4200 bulbi complessivi messi a dimora hanno prodotto circa 30 gr di prodotto . Il valore commerciale è di 20 € il grammo. Una produzione molto bassa, ma la resa aumenterà negli anni successivi. Calcolando il costo dei bulbi, le ore di lavoro, il confezionamento, non posso considerarla sicuramente per ora una coltura redditizia.  E poi c’è, la difficoltà nel proporlo come alternativa alla comoda bustina, la mancanza di conoscenza nell’utilizzo.  Ma per me è importante la soddisfazione di aver creato qualche cosa partendo da una vigna di famiglia, poter  vendere o anche regalare un prodotto mio, naturale, nato dal lavoro delle mie mani e soprattutto un prodotto di qualità .

Già, manca la cultura dello zafferano in pistilli. I consumatori, ma anche i ristoratori, sono abituati alla comoda bustina, dimenticando che lo zafferano in polvere è uno degli alimenti più facile alle adulterazioni perché può facilmente essere mescolato con altri tipi di spezie come la curcuma, il cartamo, la calendula, o con pistilli di zafferano non puri, o ancora con zafferano vecchio e mal conservato. I filamenti rossi sono più sicuri, la loro purezza e facilmente valutabile visivamente e nell’utilizzazione danno un aroma più completo, una fragranza particolare, una completa valorizzazione delle proprietà della spezia e sono anche piacevoli da vedersi nei vari piatti. Gli zafferani DOP italiani (Z. d’Aquila, Z. di San Geminiano, Z di Sardegna), la maggior garanzia per il consumatore, sono commercializzati in stili, non in polvere.
Spesso chi utilizza i pistilli dello zafferano mette il prodotto direttamente nella pentola ottenendo ovviamente risultati scadenti, peggiorativi rispetto all’ uso dello zafferano in polvere.

L’utilizzazione dello zafferano in stimmi invece prevede lo stemperamento del prodotto in una minima quantità di acqua calda o brodo caldo (circa cinquanta gradi) per permettere il rilascio di tutte le sostanze coloranti e aromatiche presenti negli stimmi. Il processo deve durare almeno quaranta minuti  e allora si vedrà  il miracolo dell’acqua che si colora via via di giallo intenso.
L’infuso così ottenuto si caricherà di tutte le proprietà organolettiche della spezia e potrà essere usato per la preparazione dei piatti, dai risotti alle minestre, dai secondi di carne in umido ai dolci.
Si consiglia anche la copertura del recipiente per non perdere il profumo che lo zafferano inizierà a sprigionare.
Ma ritornando allo zafferano coltivato in Valtellina, molti lettori si chiederanno :

Ci può essere un futuro? 
Io credo  di sì.

E’ una coltura impegnativa ma potrebbe sicuramente dare grossi soddisfazioni anche economiche uscendo dalla condizione di prodotto famigliare.
C’è un mercato potenziale derivante dai turisti che cercano sempre più prodotti tipici ma soprattutto ecologici, c’è il mercato interno della ristorazione, delle mense scolastiche, dove si tende a privilegiare i prodotti locali, c’è la regalistica natalizia (le confezioni fresche di zafferano sono pronte per Natale) e c’è sicuramente un consumatore valtellinese che, se informato opportunamente sull’utilizzo, può acquistare il prodotto per sostenere una coltura locale.

E’ importante però che si esca dall’improvvisazione, che si produca un prodotto di qualità con parametri uguali (capacità colorante, capacità aromatica, capacità amaricante, umidità massima) i cui valori alti dipendono da una corretta raccolta e selezione dei pistilli. 

E’ importante produrre un prodotto di qualità e commercializzarlo come “zafferano di Valtellina”, con un marchio collettivo, cercando di promuoverlo nei ristoranti, nei negozi di gastronomia, abbinandolo nella commercializzazione degli altri prodotti di qualità di cui la nostra provincia e ricca.

Un piccolo calcolo.
Calcoliamo una produttività di 1 kg di prodotto ogni 5.000 metri quadrati. In provincia di Sondrio ci sono 1000 ristoranti (ristoranti, ristoranti di alberghi, agriturismi , rifugi), se ogni struttura acquistasse almeno 10 grammi all’anno di “zafferano valtellinese “(consumo molto basso) avremmo un acquisto totale di 10 kg di zafferano equivalenti ad una superficie produttiva di 50.000 metri quadrati. Se aggiungiamo il possibile acquisto di turisti e di valtellinesi, potremmo considerare credibile una potenzialità di 50.000 metri quadri di coltivazione di zafferano.


foto di Alessandro Gusmerini  g.c.
Pagina FB:  RossoCroco Zafferano di Valtellina

domenica 19 febbraio 2017

NON SOLO PESCE

 
Quando si parla della gastronomia dell'alto Lario, vengono subito in mente i piatti che nascono dalla ricchezza ittica del lago: il risotto con i filetti di pesce persico, piatto nazionale del Lario, i “misultitt”, agoni pescati tra maggio e giugno essiccati al sole e pressati col sale nelle cosiddette “missolte” di legno, le alborelle fritte o ancora il lavarello al vino bianco e la zuppa di pesce alla Tremezzina. 

Ma la cultura gastronomica del Lario non è solo pesce. C’è anche una cultura alimentare di montagna, delle valli laterali che si affacciano sul grande lago.

Una di queste, la valle Albano, è ricca di storia e di semplici piatti realizzati con i pochi ingredienti che la montagna è sempre stata in grado di dare. 

La valle di Albano è una valle stretta che risale la sponda destra del lago di Como ed è  attraversata dalla strada che da Dongo sale al passo di San Jorio (strada  assolutamente consigliata agli amanti della bici ) passando tra piccoli agglomerati urbani dove le vecchie case costruite in pietra grigia si alternano ad altre ristrutturate.

Lavori architettonici gradevoli, rispettosi delle tipiche strutture di un tempo, case di tre/quattro piani costruite sfruttando il poco terreno in piano disponibile, con lunghi balconi che si affacciano sul lago.

Ma un tempo in questa valle i fabbricati principali erano le masun (baite con tetto in paglia di segale). Erano particolari costruzioni prevalentemente destinate a uso agricolo e pastorale, dove si ricoveravano gli animali allevati, vacche, capre e pecore e dove era praticata una rudimentale attività casearia, il cui prodotto più importante era la Semuda, il tipico formaggio della Valle Albano ancora oggi realizzato dai pochi agricoltori rimasti. (A Stazzona è possibile ammirare un esempio di masun con il tetto in paglia.)

La valle di Albano è una valle stretta, con pochi prati per produrre il foraggio per il bestiame e allora c’era la ricerca del pascolo che spingeva le famiglie a una lenta transumanza verso i monti sopra i paesi.  Ogni famiglia possedeva cinque o sei cascine, distribuite in verticale lungo il pendio della montagna e tutti dedicavano il proprio tempo all’allevamento del bestiame.
Tutti, a parte i più anziani, in primavera si spostavano con gli animali sui monti, cominciando sempre dalle stazioni a minore altitudine sino a quelli più alti: gli alpeggi. Per poi ridiscendere, facendo il cammino al contrario così da utilizzare al meglio il foraggio prodotto dalle diverse stazioni poste sul fianco delle montagne.

Zvulzas e sbassas diventava così la condizione di vita di tutte le famiglie per un periodo di setto o otto mesi durante l’anno. Un nomadismo continuo, cadenzato da un calendario disciplinato da regole precise e consolidate dalla tradizione e da regolamenti comunali.

Dapprima si falciava l’erba dei prati in paese, poi a metà maggio si partiva  verso il monte più basso, dove si poteva fare, anche li, il primo taglio. In quelle baite il latte munto si trasformava in burro e formaggio.

Nelle grandi conche di rame, lentamente, nella notte il grasso affiorava e la mattina adagio adagio con una scodella larga e bassa, la panna era separata dal latte e messa nella penagia. I continui, lenti ed energici movimenti trasformavano la panna in una parte solida: il burro e una liquida il lac de la penagia  ( che era utilizzato per la preparazione dell’Hadinoia.

Il latte scremato era riscaldato nella caldaia di rame e trasformato in formaggio, la Semuda.

Dal monte più basso dopo circa quindici giorni ci si alzava verso i monti più alti, fino ad arrivare negli alpeggi.

In alpeggio generalmente non si faceva il burro, il latte era utilizzato intero per la produzione di formaggio grasso e il siero che rimaneva nella caldaia era riscaldato a novanta gradi per produrre la ricotta. Impastando quest’ultima con sale e pepe si trasformava in Zighel, prodotto che utilizzando un’apposita marnetta in legno si poteva conservare per diversi mesi.

Iniziava poi il lento ritorno, el sbassas, operazione che si concludeva con il ritorno in paese. Per i morti o anche più tardi, quando tutte le operazioni che dovevano essere svolte nel monte più basso erano terminate: spargere il letame, preparare il fogliame che sarebbe stato utilizzato per il letto del bestiame l’anno dopo, raccogliere le castagne, batterle, farle seccare e metterle nello scrigno per la loro conservazione.


Oggi percorrendo la strada provinciale 5 che attraversa la valle dopo Stazzona (dove è possibile ammirare un esempio di masun con il tetto in paglia) e Germansino si arriva a Garzeno.
Siamo nella patria del Braschino, dolce tipico della zona.  

Un dolce antico e povero, ma assolutamente gradevole quando si scioglie in bocca, regalandoci incredibili e piacevoli sensazioni di dolcezza, solubilità e croccantezza.

Ottenuto da una ricetta casalinga tradizionale tramandata da madre a figlia, si prepara con un impasto lievitato a base di acqua, farina, burro e tuorli d’uovo, ai quali si possono aggiungere noci, uva passa o uvetta e per finire zucchero miscelato con bianco d’uovo.

Cesare Cantù, famoso storico comasco , così descriveva gli abitanti della valle Albano: ...poverissimamente vivono dè prati, dè boschi e del contrabbando. La gran parte delle risorse alimentari erano prodotte in loco e gli ingredienti del cibo di tutti i giorni erano frutto dalla coltivazione dei campi, in primo luogo segale e patate, ma anche castagne e viti e dall’allevamento del bestiame...
Pochi ingredienti semplici e poveri  che venivano utilizzati e abbinati con fantasia per permettere la preparazioni di piatti comunque gustosi, ancora oggi  spesso presenti sulle tavole degli abitanti della valle.

 La polenta taragna


Ingredienti:
 
 

1 kg di farina
200 g di burro
300 g di semuda *
 
Preparazione:

Quando l’acqua inizia a bollire si aggiunge a pioggia la farina di granoturco iniziando subito a rimescolare e facendola cuocere bene. Si prepara la Semuda tagliata a fette molto fini. Si aggiungono il burro e il formaggio rimescolando il tutto sino a quando gli ingredienti aggiunti si sono sciolti.


La pulenta uncia 

Ingredienti: 

1 kg di farina
200 g di burro
300 g di semuda
150 g. di zigheel **
 
Preparazione:

Si prepara la classica polenta, cuocendola sino a quando diventa abbastanza consistente. Con un cucchiaio si rompe la polenta in piccoli pezzetti che si depositano in un recipiente facendone un primo strato. Si aggiungono la Semuda tagliata a fettine e piccole cucchiate di Zigheel. Si continua così formando alcuni strati di polenta e di formaggio. Infine si riscalda il composto e alla fine si cosparge il tutto con burro fuso e aglio.


Polt de l’Alp

Ingredienti:

1 litro di latte
3 cucchiai abbondanti di farina bianca
Sale q.b.
 
Preparazione:

Si mescola la farina al latte, aggiungendola a piccole dosi in modo da non produrre grumi. Quando si è ottenuto un composto omogeneo, lo si fa cuocere continuando a mescolare per circa mezz’ora fino a che il tutto diventa filante.


Hadinoia 

 Ingredienti:
1 Kg. di farina di granturco
100 g. di burro
1 litro di latticello (può essere
sostituito dall’acqua ma rende
 il piatto meno saporito)
Sale q.b.

Preparazione:

Si bagna la farina di granturco utilizzando il latticello, inzuppandola molto bene. Si aggiunge il sale e si amalgama il tutto. In una padella si scioglie del burro e si aggiunge l’impasto, così da farlo friggere, continuando a romperlo per mantenerlo sempre sciolto. Quando il tutto è croccante si gusta con latte tiepido.


Machett 

 Ingredienti:

1 litro di latte
2 Kg. di castagne secche
50 g. di miglio o di riso
300 g. di burro
Acqua e sale qb.

 Preparazione:

Si fanno cuocere lentamente per circa tre ore le castagne ammollate precedentemente e il riso o il miglio. Quando il tutto è diventato un composto omogeneo si aggiunge il burro, il latte e il sale.

Rustii
 
Ingredienti:

1 kg. di patate bianche
300 g. di Semuda
150 g. di pancetta
50 g. di burro
200 g. di pane secco
Sale q.b. 
Si possono aggiungere delle cipolle a piacere

Preparazione:

Si sbucciano le patate, si tagliano in piccoli pezzi e si fanno bollire. A parte si fa soffriggere il burro in una padella, insieme alla pancetta ed eventualmente alle cipolle. Si aggiungono al soffritto le patate bollite, si fanno soffriggere per alcuni minuti e poi si aggiunge il formaggio precedentemente tagliato a fettine. Quando le patate cominciano a dorarsi si aggiungono il pane e il sale. La stessa ricetta può essere preparata tagliando le patate crude a fette, facendole arrostire e aggiungendo gli stessi ingredienti. La preparazione è naturalmente più lunga e richiede circa un’ora e mezza di cottura.

foto di Beniamino Pisati
 
 
* Semuda

È  un formaggio ottenuto da latte crudo di vacca scremato, caglio  e sale.
La forme è cilindrica, del diametro medio di 30 cm con un peso di circa 4 kg.
Pasta morbida/gommosa, colore tra il giallo paglierino e il verdognolo
Stagionatura da 40 giorni a 4 mesi.
**Zighel (Zincarlin)

Si impasta con le mani la ricotta, fino a renderla un composto uniforme e morbido. Si aggiunge il sale e, a piacere, un po’ di pepe. Si continua ad impastare sino a farne un composto morbido e uniforme. Si mette l’impasto così ottenuto in un contenitore. schiacciando l’impasto per far uscire tutta l’aria in modo da non formare vuoti. Infine si cosparge la superficie con abbondante pepe. Tradizionalmente si usava una marnetta dove l’impasto si lasciava stagionare per mesi, spesso conservandolo così da una stagione di alpeggio e quella successiva.