lunedì 28 marzo 2016

L'ALLEVATORE DI API REGINE



La passione per l’apicoltura di Marco Moretti, nasce da lontano, da quando, ancora bambino, aiutava il nonno. Poi lentamente l’amore per le api è diventato un lavoro che oggi si snoda tra la produzione di diverse tipologie di miele, l’allevamento e la vendita di nuove famiglie o di api regine.

“Un lavoro bellissimo”, mi dice, "sempre all’aperto, in ambienti naturali, luoghi particolari dove regna la tranquillità ed il silenzio è rotto solo dal brusio delle api. Un lavoro dinamico, dove ogni posizionamento delle arnie presenta delle caratteristiche diverse, dove la stagionalità ogni anno può cambiare e ti obbliga ad adeguarti. E così il tutto diventa una continua occasione di crescita, di perfezionamento, di scoperta di un mondo magico che non finisce mai di stupirti. Noi, poi siamo fortunati, abbiamo una varietà floreale che va dal fondo valle fino a 1800 metri con varietà di produzioni differenziate e riusciamo a produrre mieli di qualità, mieli delicati, ricchi di differenti sfumature di colori, di aromi, di sapori sempre più apprezzati dai consumatori .”

Mentre mi parla, mi mostra le arnie vicino a case da dove le api, con l’inizio delle temperature miti primaverili hanno già iniziato a visitare i primi fiori stagionali.

“... Riusciamo a differenziare le nostre produzioni, posizionando le arnie già dai primi caldi primaverili per produrre un Millefiori primaverile, di tarassaco, ciliegio, salice. E’ un miele chiaro, fresco, che cristallizza subito. Poi l’acacia, il tiglio, il castagno per arrivare a metà giugno con i posizionamenti in montagna per produrre millefiori di alta montagna o rododendro.”

Mi accompagna nel laboratorio e inizia a raccontarmi la parte del suo lavoro che ama maggiormente: creare nuovi nuclei, le nuove famiglie che saranno produttive l’anno successivo ma anche produrre api regine da vendere a chi vuole iniziare l’attività o che vuole incrementare il numero delle arnie.

“E’ un’operazione delicata.
 Preparo artificialmente delle regine selezionando regine madri che sono testate per docilità, produttività, igienicità, fattori importantissimi per produrre mieli di qualità. Prendo le uova che sono state deposte da una regina che ho individuato, faccio il traslarvo, appoggio le uova singole nei copulini e inserisco una stecca di copulini all’interna di una famiglia orfana, che non ha la regina. Le api vedono le uova, capiscono che possono fare una nuova regina e iniziano il loro lavoro. Quando le celle sono chiuse, vengono prelevate, messe in incubatrice per sette giorni a 34 gradi. Dopo sette giorni le uova si schiudono e nascono le nuove regine vergini. Io controllo che non abbiano difetti fisici e dopo la marcatura con un pennarello sul dorso sono pronte per essere messe in un nucleo di fecondazione.”

Ascolto le sue parole senza interromperlo, come si ascolta una storia e mi viene in mente la protagonista del bellissimo romanzo di Cristina Caboni, ” la custode del miele e delle api”. Angelica, cantava alle api, parlava a questi magici insetti, ascoltava i brusii delle arnie, e le api si posavano sulla sua mano, le zampette danzavano sulla sua pelle facendole il solletico. Sorridendo penso che probabilmente anche Marco parli alle sue api regine.

“…Si crea così” continua “una micro famiglia, circa trecento api, che hanno il compito di custodirla. La regina poi esce per essere fecondata, torna nell’arnietta di fecondazione e poi compie sei/sette voli di fecondazione e accumula nella spermateca tutto il materiale spermatico che le servirà per tutta la vita. A quel punto dopo 11/12 giorni da quando è nata, controllo che abbia deposto le prime uova. Quella è l’indicazione che la regina e stata fecondata ed è pronta per essere venduta agli apicoltori.

La metto in un contenitore apposito, una gabbietta, con una decina di api della sua famiglia che l’accompagnano nel viaggio e finalmente la regina è pronta per essere inserita in una famiglia orfana.”
Mi mostra i vari attrezzi che usa, i populini, il casco con gli occhiali che usa per il traslarvo. Mi guardo in giro, il luogo di lavoro è ordinato, pulito, è lo specchio di una metodica di lavoro precisa, razionale … come quella delle api.

Poi mi parla dell’importanza delle api nell’impollinazione del melo ma anche per la perpetuazione della specie di tantissimi fiori che senza api potrebbero anche scomparire.

E poi ancora mi parla del rispetto degli agricoltori per le api, rispetto cresciuto negli ultimi anni, nato dalla consapevolezza che la qualità della frutta, dimensioni, profumo e sapore dipendono anche dal fatto che l’impollinazione sia fatta da un insetto pronubo.
Non manca di raccontarmi dell’importante attività che l’Associazione Apistica, di cui è un socio molto attivo, sta facendo sul territorio per valorizzare il settore, del laboratorio consortile, utilizzabile da tutti, che permette anche a chi ha solo poche arnie di avere un prodotto invasettato, perfettamente a norma che può vendere a chi vuole nel rispetto di tutte le normative produttive.

Mi parla dei corsi che l'associazione organizza per promuovere la cultura delle api, per motivare i partecipanti ad iniziare un' attività che può sicuramente dare grosse soddisfazioni, dove è possibile anche guadagnare con altri prodotti come la propoli, la pappa reale, il polline. Prodotti particolarmente ricercati dai consumatori sempre più informati delle caratteristiche salutari dei frutti dell’alveare.


Concludiamo la visita dell’azienda fermandoci nello spaccio di vendita. In uno scaffale si notano pochi vasetti di miele (quasi tutta la produzione 2015 è già stata venduta), in evidenza, appese alle pareti, bellissimi scatti diMarco.
Grandi foto che parlano di fiori, di arnie colorate,  che raccontano  il misterioso e  affascinante mondo delle api, che parlano di  un territorio dove la ricchezza di una flora naturale può ancora regalarci un prodotto unico.

Azienda apistica Marco Moretti
Via Fracia, 4
23030 Chiuro
Tel. 0342 - 48.20.30 
e-mail apimoretti@libero.it

la prima e ultima foto sono di Marco Moretti  gentilmente concesse

martedì 1 marzo 2016

I SALUMI E LA CARNE SECCA


Una vecchia leggenda valtellinese racconta che Cristoforo Colombo appena sbarcato in America abbia incontrato alcuni abitanti di Grosio intenti a vendere maiali agli indiani.

Al di là della leggenda è certo che la tradizione della macellazione dei maiali in Valtellina sia antichissima.

Documenti del 1700 parlano di luganegat di Morbergno e Bormio che lasciavano d'inverno le montagne per dedicarsi alla maciglia nella zona del ferrarese e del basso veneto. Altri documenti storici dicono che un salume simile al salame ferrarese venisse prodotto e conservato per un anno nella cenere nella zona di Morbegno.

Del resto nella cucina valtellinese il grande paiolo appeso alla catena del focolare non serviva solo per la polenta; i profumati pastoni per i maiali venivano preparata cuocendo farina, crusca, patate, spesso anche castagne, e venivano poi vuotati ancora tiepidi nei truogoli presi d'assalto dai maiali.

Non potevano mancare in questi pastoni le ortiche, dalle quali si staccavano i germogli e le foglioline più tenere cotte a parte servivano per preparare gustose minestre.

E chi non ricorda i grandi tini dove venivano lasciati fermentare i cardi opportunamente mondati e sminuzzati che poi erano aggiunti a grandi manciate nel pasto del suino?

Il siero derivante dalle varie lavorazioni casearie, alimento base per l'alimentazione del maiale, era così integrato da una razione alimentare preparata con cura. Un'attenzione particolare premiata dalla squisitezza delle carni che si concludeva con la grande giornata dedicata alla macellazione. L'uccisione del maiale avveniva quando l'animale raggiungeva il peso di 200 kg. o addirittura di 250 kg., generalmente in inverno per evitare che il caldo potesse alterare la carne.

Si preparava la conca del purcel, una lunga cassa di legno dove il povero maiale appena ucciso era sdraiato e ricoperto lentamente di acqua bollente per poter togliere le setole.

Quando la cotenna era pulita e si presentava di un colore roseo, l'animale veniva appeso con la testa in giù. Un taglio deciso ne staccava subito la testa, poi un altro taglio, longitudinale, altrettanto deciso ne permetteva la pulizia interna con la liberazione delle interiora.

Le budella, rigorosamente pulite, passate in acqua e aceto per togliere ogni cattivo odore residuo erano utilizzate come involucro per la preparazione degli insaccati. Si sezionava poi l'animale con cura ed in base alle parti utilizzate e agli ingredienti aggiunti si producevano i diversi insaccati che ancora oggi sono preparati con la stessa cura di un tempo: i salami con le carni migliori, macinate a grana fine e con il lardo più compatto e più bianco, i cacciatori (luganeghin) più piccoli dei precedenti, i salami di testa con la carne della testa e un po' di cotenna, i cotechini con la cotenna e carne di scarto, il cotecotto con carne magra suina e bovina e impasto di cotenna, le salsicce di sangue con il sangue cotto e poca carne, i bastardelli preparati con carne di suino, di manzo o di capra, drogate e impastate con un po' di vino, la mortadella con il fegato, carne e lardo, il cui impasto era spesso bagnato con il vin brulè prima di insaccare.
Alcune parti venivano fatte stagionare intere, dopo esser state messe in salamoia di vino, spezie e sale; si producevano così il culatello, la pancetta, la coppa, la bondiola (derivante dal collo "insaccato" con la vescica del maiale). Il grasso di maiale, non utilizzato nella maciglia, veniva fatto cuocere lentamente in paioloni stagnati fino ad ottenere un olio dorato. Fatto risolidificare in grandi vasi di terracotta e diventava il condimento da utilizzarsi per la preparazione dei vari piatti della cucina contadina. Il residuo di questa operazione, i grasselli (grifui) si utilizzavano per condire una speciale polenta.
Altre volte, venivano miscelati in un impasto con noci e farina, si produceva un pane da consumarsi nelle festività natalizie. C'è sicuramente un altro salume che va ricordato in questa tradizione alimentare: il salame di rape di Livigno. Si confezionava utilizzando le rape e i cavoli cotti macinati con la stessa quantità di lardo e con aggiunta di spezie ed infine insaccando il tutto in un budello stretto.
 
L'uccisione del maiale era una grande festa a cui partecipavano attivamente tutti i componenti della famiglia, anche i bambini.
La chiassosità dei ragazzini spesso poteva però disturbare il lavoro del macellaio.
Allora qualche adulto li invitava ad andare da qualche parente a farsi prestare l'attrezzatura per misurare i salami.
I ragazzini ignari della burla alle loro spalle andavano dal parente lontano, che capito lo scherzo preparava di nascosto un pesante sacco. I giovani arrivavano poi con il loro pesante fardello dal macellaio e subito dal sacco si estraeva il misterioso musiratore... pesanti ferri, pezzi di legno o sassi... E così tra chiassose risate si concludeva una delle più importanti giornate della storia alimentare valtellinese.
 
Le fatiche della giornata erano spesso dimenticate da una ricca cena fatta cuocendo le zampe del maiale con patate e castagne bianche (pesciò con tartufui e castegni). Se i prodotti della macellazione del maiale hanno avuto una importanza notevole nella storia alimentare, va segnalata la mancanza di preparazioni culinarie con l'utilizzazione della carne fresca di altri animali.

C'è invece una cultura, una tradizione nella conservazione della carne, soprattutto nella produzione della famosa: "carne secca".
Capitava spesso, in alpeggio, che un animale morisse accidentalmente, per malattia o perché scivolasse in qualche pendio.
 
Con dispiacere, veniva macellato e la carne opportunamente disossata, tagliata a fettine sottili salata ed essiccata al sole, sui tetti delle baite. Generalmente era consumata così, ma spesso era arrostita sulla brace o messa nella polenta, verso la fine della cottura, per renderla più morbida.
 
Da quella ricetta e da quella esigenza di conservare la carne in montagna, lontano dai paesi, dai macellai, nascono poi sistemi più evoluti di trasformazione. Troveranno nelle bresaole, nelle slinzeghe o nei violini le espressioni di una tradizione che, nel tempo, si è sempre più affinata riuscendo a sfruttare al meglio le caratteristiche climatiche della provincia di Sondrio.
Oggi la bresaola è fatta con carne bovina, utilizzando i tagli più pregiati della coscia del manzo opportunamente isolati, mondati e stratificati in grandi contenitori dove la "concia" ne permette una aromatizzazione particolare. L'asciugatura e la stagionatura, che un tempo venivano eseguite lasciandole all'aperto sfruttando l'aria asciutta della Valtellina, concludono le operazioni di preparazione.
 
Non mancano significative variazioni come l'affumicatura, che riesce a dare alla brisaola quel tocco di aroma derivante dal legno bruciato lentamente. Le slinzeghe erano un tempo preparate utilizzando la carne di cavallo, generalmente i tagli meno pregiati.
Oggi si confezionano invece con i ritagli della lavorazione della bresaola producendo così prodotti più piccoli dei salumi cugini più importanti. Infine il violino.
 
E' ricavato dalla coscia o dalla spalla di capra o di pecora ma non mancano anche ottimi prodotti derivanti da animali selvatici come capriolo o camoscio. Si affetta, secondo la tradizione, appoggiando il salume su una spalla e utilizzando il coltello quasi a mo' di archetto.
Da qui appunto il nome violino.
Nella panoramica di questi salumi non si possono dimenticare alcuni prodotti ormai scomparsi come i cacciatori d'asina od ancora i prosciutti di Gallivaggio che si dice si facessero essiccare sul campanile del famoso santuario.