Una vecchia leggenda valtellinese
racconta che Cristoforo Colombo appena sbarcato in America abbia incontrato
alcuni abitanti di Grosio intenti a vendere maiali agli indiani.
Al di là della leggenda è certo che la
tradizione della macellazione dei maiali in Valtellina sia antichissima.
Documenti del 1700 parlano di luganegat
di Morbergno e Bormio che lasciavano d'inverno le montagne per dedicarsi alla
maciglia nella zona del ferrarese e del basso veneto. Altri documenti storici
dicono che un salume simile al salame ferrarese venisse prodotto e conservato
per un anno nella cenere nella zona di Morbegno.
Del resto nella cucina valtellinese il
grande paiolo appeso alla catena del focolare non serviva solo per la polenta;
i profumati pastoni per i maiali venivano preparata cuocendo farina, crusca,
patate, spesso anche castagne, e venivano poi vuotati ancora tiepidi nei
truogoli presi d'assalto dai maiali.
Non potevano mancare in questi pastoni
le ortiche, dalle quali si staccavano i germogli e le foglioline più tenere
cotte a parte servivano per preparare gustose minestre.
E chi non ricorda i grandi tini dove
venivano lasciati fermentare i cardi opportunamente mondati e sminuzzati che
poi erano aggiunti a grandi manciate nel pasto del suino?
Il siero derivante dalle varie
lavorazioni casearie, alimento base per l'alimentazione del maiale, era così
integrato da una razione alimentare preparata con cura. Un'attenzione
particolare premiata dalla squisitezza delle carni che si concludeva con la
grande giornata dedicata alla macellazione. L'uccisione del maiale avveniva
quando l'animale raggiungeva il peso di 200 kg. o addirittura di 250 kg.,
generalmente in inverno per evitare che il caldo potesse alterare la carne.
Si preparava la conca del purcel, una
lunga cassa di legno dove il povero maiale appena ucciso era sdraiato e
ricoperto lentamente di acqua bollente per poter togliere le setole.
Quando la cotenna era pulita e si
presentava di un colore roseo, l'animale veniva appeso con la testa in giù. Un
taglio deciso ne staccava subito la testa, poi un altro taglio, longitudinale,
altrettanto deciso ne permetteva la pulizia interna con la liberazione delle
interiora.
Le budella, rigorosamente pulite,
passate in acqua e aceto per togliere ogni cattivo odore residuo erano
utilizzate come involucro per la preparazione degli insaccati. Si sezionava poi
l'animale con cura ed in base alle parti utilizzate e agli ingredienti aggiunti
si producevano i diversi insaccati che ancora oggi sono preparati con la stessa
cura di un tempo: i salami con le carni migliori, macinate a grana fine e con
il lardo più compatto e più bianco, i cacciatori (luganeghin) più piccoli dei
precedenti, i salami di testa con la carne della testa e un po' di cotenna, i cotechini
con la cotenna e carne di scarto, il cotecotto con carne magra suina e bovina e
impasto di cotenna, le salsicce di sangue con il sangue cotto e poca carne, i
bastardelli preparati con carne di suino, di manzo o di capra, drogate e
impastate con un po' di vino, la mortadella con il fegato, carne e lardo, il
cui impasto era spesso bagnato con il vin brulè prima di insaccare.
Alcune
parti venivano fatte stagionare intere, dopo esser state messe in salamoia di
vino, spezie e sale; si producevano così il culatello, la pancetta, la coppa,
la bondiola (derivante dal collo "insaccato" con la vescica del
maiale). Il grasso di maiale, non utilizzato nella maciglia, veniva fatto
cuocere lentamente in paioloni stagnati fino ad ottenere un olio dorato. Fatto
risolidificare in grandi vasi di terracotta e diventava il condimento da
utilizzarsi per la preparazione dei vari piatti della cucina contadina. Il
residuo di questa operazione, i grasselli (grifui) si utilizzavano per condire
una speciale polenta.
Altre volte, venivano miscelati in un impasto con noci e
farina, si produceva un pane da consumarsi nelle festività natalizie. C'è
sicuramente un altro salume che va ricordato in questa tradizione alimentare:
il salame di rape di Livigno. Si confezionava utilizzando le rape e i cavoli
cotti macinati con la stessa quantità di lardo e con aggiunta di spezie ed
infine insaccando il tutto in un budello stretto.
L'uccisione del maiale era
una grande festa a cui partecipavano attivamente tutti i componenti della
famiglia, anche i bambini.
La chiassosità dei ragazzini spesso poteva però
disturbare il lavoro del macellaio.
Allora qualche adulto li invitava ad andare
da qualche parente a farsi prestare l'attrezzatura per misurare i salami.
I
ragazzini ignari della burla alle loro spalle andavano dal parente lontano, che
capito lo scherzo preparava di nascosto un pesante sacco. I giovani arrivavano
poi con il loro pesante fardello dal macellaio e subito dal sacco si estraeva
il misterioso musiratore... pesanti ferri, pezzi di legno o sassi... E così tra
chiassose risate si concludeva una delle più importanti giornate della storia
alimentare valtellinese.
Le fatiche della giornata erano spesso dimenticate da
una ricca cena fatta cuocendo le zampe del maiale con patate e castagne bianche
(pesciò con tartufui e castegni). Se i prodotti della macellazione del maiale
hanno avuto una importanza notevole nella storia alimentare, va segnalata la
mancanza di preparazioni culinarie con l'utilizzazione della carne fresca di
altri animali.
C'è invece una cultura, una tradizione nella conservazione della
carne, soprattutto nella produzione della famosa: "carne secca".
Capitava spesso, in alpeggio, che un animale morisse accidentalmente, per
malattia o perché scivolasse in qualche pendio.
Con dispiacere, veniva
macellato e la carne opportunamente disossata, tagliata a fettine sottili
salata ed essiccata al sole, sui tetti delle baite. Generalmente era consumata
così, ma spesso era arrostita sulla brace o messa nella polenta, verso la fine
della cottura, per renderla più morbida.
Da quella ricetta e da quella esigenza
di conservare la carne in montagna, lontano dai paesi, dai macellai, nascono
poi sistemi più evoluti di trasformazione. Troveranno nelle bresaole, nelle
slinzeghe o nei violini le espressioni di una tradizione che, nel tempo, si è
sempre più affinata riuscendo a sfruttare al meglio le caratteristiche
climatiche della provincia di Sondrio.
Oggi la bresaola è fatta con carne
bovina, utilizzando i tagli più pregiati della coscia del manzo opportunamente
isolati, mondati e stratificati in grandi contenitori dove la
"concia" ne permette una aromatizzazione particolare. L'asciugatura e
la stagionatura, che un tempo venivano eseguite lasciandole all'aperto
sfruttando l'aria asciutta della Valtellina, concludono le operazioni di
preparazione.
Non mancano significative variazioni come l'affumicatura, che
riesce a dare alla brisaola quel tocco di aroma derivante dal legno bruciato
lentamente. Le slinzeghe erano un tempo preparate utilizzando la carne di
cavallo, generalmente i tagli meno pregiati.
Oggi si confezionano invece con i
ritagli della lavorazione della bresaola producendo così prodotti più piccoli
dei salumi cugini più importanti. Infine il violino.
E' ricavato dalla coscia o
dalla spalla di capra o di pecora ma non mancano anche ottimi prodotti
derivanti da animali selvatici come capriolo o camoscio. Si affetta, secondo la
tradizione, appoggiando il salume su una spalla e utilizzando il coltello quasi
a mo' di archetto.
Da qui appunto il nome violino.
Nella panoramica di questi
salumi non si possono dimenticare alcuni prodotti ormai scomparsi come
i cacciatori d'asina od ancora i prosciutti di Gallivaggio che si
dice si facessero essiccare sul campanile del famoso santuario.
ANCHE A CHIURO NELLE FAMIGLIE CONTADINE ERA IN USO VERSO LE FESTE NATALIZIE SACRIFICARE EL POR CIUN o CION
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