giovedì 19 settembre 2013

STORIA DELL'ALIMENTAZIONE VALTELLINESE- la vendemmia

E' ancora vendemmia

La coltivazione della vite nella provincia di Sondrio ha sempre interessato quasi tutti i comuni del fondovalle con vigne al piano e a monte (ronco) dando prodotti di qualità completamente diversi . " Vin de Cos, Delebi e Piantée bon da lavas i pée... " (vino di Cosio, Delebio e Piantedo è buono per lavarsi i piedi) diceva un vecchio proverbio proprio per dimostrare la qualità scadente dei vigneti dei paesi della sponda non soliva della Valtellina (Marocch).
 
L'elevata qualità del vino del ronco ne permetteva una vendita redditizia, mentre il vino del piano, di qualità scadente, veniva utilizzato per l'auto consumo; si beveva anche la vinesa, derivante dalle vinacce torchiate messe in acqua per diversi giorni.
 
Ma indipendentemente dalla localizzazione della vigna le varie tecniche culturali e di produzioni non sempre davano un prodotto eccezionale. Si racconta che molti contadini dovendo vendere il loro vino facessero cortesemente assaggiare ai  compratori abbondanti porzioni di formaggio vecchio riuscendo così a nascondere tutti i difetti della bevanda.
 
La cultura del vigneto appartiene comunque alla sponda soliva, a tutto quel territorio, da Traona a Tirano, dove il contadino valtellinese è riuscito ad inventare la viticoltura sostituendo la nuda roccia con terreno trasportato a spalla , creando piccoli terrazzamenti con la costruzioni di muri a secco. Un patrimonio di grandissimo valore ambientale che ancora oggi permette la produzione dei famosi vini della Valtellina.
 
Una coltivazione precisa, fatta di giornate dedicate alla potatura, alla legatura dei tralci con i rami di salice, alla zolfatura fatta utilizzando la pompa a spalla, alla "sgarzolatura", una potatura verde che permette una miglior crescita dei rami con grappoli, fino ad arrivare alla vendemmia che conclude la faticosa stagione dedicata alla vite.
 
"Giorni di vendemmia, giorni di festa" si diceva; una festa corale fatta di raccolta, di trasporto, di continui e faticosi scendere ed arrampicarsi per le varie scalinate dei muretti. Ma anche un'occasione per stare insieme, per cantare; un momento di socializzazione che culminava con il pranzo collettivo nelle case rurali collocate strategicamente tra i vigneti. Erano principalmente le donne che cantavano, famose quelle di Triangia per i "gigui" grida di auto compiacimento che venivano fatte alla fine di ogni canzone.
 
Gli uomini difficilmente cantavano, con le gerle colme di uva e con le pesanti brente in legno non potevano distrarsi dovendo con notevole equilibrio camminare tra gli stretti e ripidi sentieri per portare il prodotto ai piedi del vigneto dove grossi tini caricati su carri attendevano di esser riempiti.
 
La festa della vendemmia si concludeva con la pigiatura: le ragazze abbandonando il loro pudore entravano nei tini ed iniziavano la spremitura dell'uva con i piedi, mostrando con naturalezza le gambe bianche fino alle cosce. E così nascevano quei vini, Sassella ,Grumello, Inferno, che hanno reso famosa la Valtellina. Si produceva anche lo "sfurzat", lasciando appassire le uve sui graticci per almeno due mesi prima della pigiatura in modo di aumentare la concentrazione di zucchero, riuscendo così ad arrivare a gradazioni superiori ai 15 gradi. Lo sforzato era un vino nobile che veniva consumato solo in occasioni particolari, qualcuno addirittura lo considerava un ricostituente da bersi a piccoli sorsi solo in caso di malattia.

martedì 3 settembre 2013

STORIA DELL'ALIMENTAZIONE VALTELLINESE - i dolci.

Eppure c'erano anche i dolci

Lo zucchero è sempre stato un alimento da utilizzarsi con parsimonia; solo in occasioni particolari la donna più anziana della famiglia (la regiura) ne estraeva alcune piccole cucchiaiate da un sacchetto di tela. Eppure sfogliando le pagine della storia alimentare troviamo vari dolci che hanno allietato le feste di tutti i bambini della valle.
 
La bisciola (panun) preparato con un impasto di pane ,fichi secchi ( i fichi delle vigne fatti essicare al sole, infilzati sui tralci sechi della vite), noci, nocciole, castagne rappresentava il dono natalizio che generalmente i bambini ricevevano dal padrino di battesimo.
 
La cupéta era invece il dolce dei santi, a Bormio per S. Lucia, a Morbegno per S. Antonio, a Sondalo per S. Agnese; si prepara facendo cuocere il miele per circa venti minuti e si aggiungono noci triturate finemente (la leggenda vuole che a Grosio questa triturazione venisse fatta dalle grosine con i denti), poi si toglie dal fuoco, si stende il composto su una cialda di ostia e si ricopre il tutto con un'altra cialda. Dopo una leggera schiacciatura si lascia raffreddare e si taglia in pezzetti rettangolari.
 
Il carnevale era la classica occasione per preparare alcuni dolci per i bambini: le famose frittelle che a seconda della zona prendevano un nome diverso. A Bormio i manzoli, simili alle chiacchiere, preparate con farina, uova , burro alcune volte una spruzzatina di liquore, cotte nello strutto ee infine spolverizzate di zucchero.
 
Nella media valle la cutizza, frittella preparate con una pastella di latte e farina che avvolge una fetta di mele e fritta nello strutto. Un frittellone particolare si faceva e si fa a Sondalo. Il curnat preparato con un impasto di farina, acqua o latte, uova ,zucchero e cotto poi in padella con lo strutto o anche cotto direttamente sulla pioda (curnat su la piata).

 Sempre a Sondalo alcuni anziani preparano ancora oggi la squisita papa de cunfecc, una densa pappa di farina tostata con latte e le bacche mature del sambuco.
 
 Il mulun si preparava nella zona di Talamona facendo cuocere castagne secche e fagioli nel latte fino ad arrivare ad avere una specie di polenta abbastanza dura che si tagliava a fette. Oggi questa antica ricetta è stata arricchita, le fette di mulun vengono coperte di panna assumendo le sembianze del più famoso Monte Bianco, dolce preparato con farina di castagne.
 
In Val Chiavenna è ancora ricercata ed apprezzata la torta di fiorett, torta fatta con farina bianca, acqua, uova, zucchero spolverizzata con semi di anice e di sambuco. A Lanzada si ricordano la rinomata torta di noci e miele e gli oss de mord (ossa da mordere e non ossa dei morti) biscotti di farina bianca, mandorle, zucchero,chiara d'uovo e qualche chiodo di garofano.
 
Naturalmente non si possono dimenticare i famosi Biscoutin de Prost, fatti con farina, zucchero e burro miscelati in proporzioni diverse in una antica ricetta tenuta ancora oggi gelosamente segreta dai proprietari del famoso mulino di Prosto di Piuro.

martedì 6 agosto 2013

STORIA DELL'ALIMENTAZIONE VALTELLINESE : il castagno

Una risorsa dimenticata: il castagno


Il castagno nella storia dell'economia e dell'alimentazione valtellinese ha sempre avuto un'importanza fondamentale, riuscendo ad offrire alla popolazione rurale svariate possibilità di utilizzo. Dal legname, apprezzato per le sue caratteristiche e usato per la costruzione di pali, travi, arredi ed attrezzi agricoli, alle foglie utilizzate come lettiera delle vacche e quindi riutilizzate per la letamazione dei prati, dei vigneti e dei campi.
 
 Dalla corteccia e le foglie usate come rimedio per la tosse e le malattie del raffreddamento, al frutto che ha avuto per secoli un ruolo importantissimo nell'alimentazione invernale delle popolazioni di montagna. Non si possono poi dimenticare alcune credenze popolari che attribuivano a questo frutto poteri quasi magici, come il preservarsi dall'influenza tenendo in tasca una castagna. La raccolta delle castagne iniziava nel periodo autunnale.
 
 Ogni contadino le raccoglieva nella propria selva, con un rispetto quasi sacro della proprietà. Solo dopo "i Morti" era possibile "andare a spigolare" , ma la raccolta precisa e metodica dei proprietari delle selve non lasciava molto prodotto agli spigolatori. "Ammazzare gente, spalare neve e bacchiare le piante, sono mestieri inutili" raccontava un proverbio del tempo.
 
Al di là infatti della pericolosità, la bacchiatura era considerata inutile perché la raccolta delle castagne era fatta quasi quotidianamente dai più giovani componenti della famiglia raccogliendole dai ricci caduti nella giornata precedente. Solo alla fine di ottobre venivano dedicate intere giornate nella selva ed allora tutta la famiglia partecipava a questo rito fatto di voci di bimbi e di adulti, di rumori di foglie e ricci calpestati, di svuotamento delle grosse tasche dei grembiuli utilizzate per avere le mani libere, di gerle svuotate sui balconi di legno o sui graticci della "cascina" (agraa).
 
L'agraa era una piccola costruzione in muratura divisa da una grata fatta da rami di legno posti a circa due metri dal suolo. Le castagne venivano sparse sul graticcio in uno strato di una decina di centimetri ,mentre nel locale sottostante veniva acceso un fuocherello che bruciava radici di castagno, ricci, foglie e pula delle castagne dell'anno precedente. L'essiccazione delle castagne con il calore del fumo derivante da questo fuoco lento che si teneva acceso notte e giorno permetteva di avere un prodotto con un valore nutritivo e commerciale diverso rispetto all'essiccazione al sole perché così facendo si riusciva a mantenere un più alto contenuto di zucchero e soprattutto un miglior sapore.
 
Quando le castagne erano secche si iniziava l'operazione della "pestatura" per sgusciarle, spogliarle della sansa e renderle così belle bianche. Nella cascina si faceva bollire acque e cenere in un grosso paiolo. Lo scopo era quello di riscaldare le castagne senza produrre fumo. I preziosi frutti venivano poi messi in lunghi e stretti sacchi di canapa alla cui estremità interna venivano cucite due palle di stracci e infine, con gesti ritmici alternati, gli uomini iniziavano la" battitura": una ventina di colpi su un vecchio ceppo di castagno ed ecco uscire dai sacchi le castagne bianche, pulite, senza buccia. La battitura continuava per molto tempo, un continuo riempimento e svuotamento dei sacchi alternati dal ritmico rumore dei colpi sul legno fino a quando l'agraa era completamente vuota.
 
Un ultima operazione di cernita veniva fatta più tardi durante le sere autunnali, spargendo le castagne sui grandi tavoli della cucina allo scopo di eliminare quelle marce ma anche per togliere i residui di sansa (camicia) ancora attaccati al frutto. Le castagne erano così pronte per diventare la più importante riserva di carboidrati e proteine vegetali per tutto il lungo inverno. La cultura alimentare della castagna annovera diversi modi di preparazione. Le ballotte (farudi) quelle lessate in acqua con la buccia e consumate mordendole a metà e succhiando poi le due parti, le bruciate (i braschée) arrostite in apposite padelle col fondo bucherellato direttamente sul fuoco e coperte alla fine con foglie di verza per renderle più morbide (masarà). La preparazione dei braschée era una festa ed accompagnava sempre i momenti particolari della cultura contadina: vendemmia, torchiatura, la feste del paese, eventuali battesimi...





Mulun, piatto tipico di Talamona preparato con fagioli e castagne.
 
 
La vera risorsa alimentare delle famiglie contadine erano le castagne secche conservate accuratamente ed utilizzate per tutto l'inverno. Cotte nell'acqua, nel latte o nella minestra, consumate anche nel vino, cotte con fagioli, patate e in certi casi con ossa del maiale appena ammazzato per dare più sapore. Trasformate in farina, erano le colazioni o le cene della famiglia contadina che nella castagna ha sempre trovato una grande risorsa alimentare nelle fredde giornate invernali.

sabato 15 giugno 2013

LETTERA APERTA AD ANTONELLA CLERICI






Cara Antonella,

Ho visto quasi tutte le puntate della tua nuova trasmissione “la terra dei cuochi”, fortunatamente conclusasi domenica scorsa e non posso fare a meno di scrivere queste righe riguardanti una trasmissione inutile, diseducativa, non rispettosa di una professione bella e importante: il cuoco.

Io vivo in una provincia fortemente turistica, dove l’enogastronomia è importante, dove la presenza di quattro scuole alberghiere ha permesso a tanti giovani di intraprendere questa bellissima professione e di avere tanti chef che in provincia e fuori hanno onorato e onorano l’arte della cucina.

Durante i miei anni come direttore di scuole alberghiere ho sempre cercato di spiegare agli allievi che la professione del cuoco è bella ma che per raggiungere buoni risultati occorrono sacrificio, modestia, preparazione, conoscenze specifiche delle materie prime utilizzate, creatività, fantasia. Ma anche manualità, tempismo, capacità di gestire il magazzino, capacità organizzative, capacità di gestire imprevisti.

Non per niente l’organizzazione di una grande cucina prevede una brigata con varie tipologie di figure professionali, ed una gerarchia che dal basso parte dal commis di cucina, al capo partita, al sous chef fino ad arrivare allo chef de cuisine, ultimo gradino raggiunto solo dopo una lunga esperienza maturata sul campo.

Un lungo percorso professionale fatto di anni di lavoro, di esperienze diverse, e se è pur vero che il mercato del lavoro è cambiato e oggi l’organizzazione così descritta la troviamo solo nei grandi ristoranti, non va dimenticato che per diventare un bravo chef, dopo la formazione presso una scuola alberghiera è necessario un percorso di lavoro fatto di tante esperienze che trasformano lentamente il commis di cucina in un vero cuoco.

La formazione di base resta il momento di crescita professionale più importante: per preparare un piatto non basta mettere insieme alcuni ingredienti, dietro quel piatto c’è spesso storia, ricerca, sperimentazione, riflessione, conoscenza di tutti gli ingredienti che devono fondersi in armonia, perché devono creare un equilibrio, una piacevolezza che ci deve invogliare ad ordinarlo una seconda volta.

Nella tua trasmissione invece no, si diventa chef in poche settimane semplicemente preparando alcuni piatti giudicati dai parenti. Ma gli stessi parenti non sono mai riusciti a descrivere sensazioni particolari, piacevolezze speciali.

La tua trasmissione è stata inutile, quasi un insulto per chi ha dedicato la propria vita per diventare chef, per tutti quelli che lavorano e insegnano nelle scuole alberghiere, per tutti quelli che credono in una formazione seria e necessaria per entrare nel mondo del lavoro dove la cultura del saper fare è più importante di quella dell’apparire. Dove si insegna la modestia, la responsabilità, il rispetto delle regole fondamentali della cucina, la scelta accurata degli ingredienti, l’assaggio del piatto prima che esca dalla cucina.

Durante le tue trasmissione tutto questo non l’ho visto. Non ho visto un concorrente assaggiare un piatto, annusare il piatto finito.  Ho visto corse nella dispensa per prendere quasi a caso gli ingredienti per preparare un piatto. Ho visto concorrenti impacciati nel pulire un pesce, incapaci a “tirare una pasta”, lentissimi a tagliare le verdure, senza una minima manualità di base.

Non basta saper cucinare qualche piatto per definirsi chef, c’è tutta l’organizzazione della cucina per preparare un numero diverso di piatti, c’è l’approvvigionamento delle materie prime che non può essere fatto in trenta secondi e che richiederebbe anche una scelta in base alle caratteristiche organolettiche dell’alimento.  Durante le trasmissioni non ho mai visto nessun concorrente annusare un pomodoro o un pezzo di formaggio per vedere se era adatto per la preparazione del piatto.

Ho visto concorrenti preoccupati solo di finire un piatto e poter aprire un ristorante con il premio di 120.000 € messo in palio dalla Rai per il vincitore. Durante la prova finale che ha decretato il vincitore, ho visto il futuro chef alle prese con una lingua salmistrata di circa un chilogrammo che con molta fantasia (!!!) ne ha ricavato quattro cubetti, neanche tagliati uniformerete, che sono stati impanati con grissini sbriciolati.  Mi piacerebbe vederlo nel suo nuovo ristorante a preparare lo stesso piatto per cento persone!!!

Alla faccia della crisi. Lo spreco è stata del resto sempre presente in tutte le trasmissioni. Peccato. In periodi di crisi la cultura del recupero poteva essere utilizzata per studiare qualche gioco più interessante.

Ma la tua trasmissione oltre essere stata dannosa nel messaggio globale, basta la passione per diventare chef,è stata anche diseducativa.

Avete utilizzato la sensorialità, per qualche giochino di dubbia utilità, basti pensare alla polpette preparate con gli ingredienti più strani, o i ghiaccioli da sapori impossibili, dimenticando che l’utilizzo corretto degli organi di senso può essere lo strumento determinante per la scelta e l’acquisto degli alimenti. Anche nei programmi di educazione alimentare nelle scuole elementari si usano gli stessi giochi, ma sono finalizzati a valorizzare la sensorialità, a far capire al bambino che il cibo crea sensazioni piacevoli che vanno capite, valorizzate, raccontate. I giochi sono poi utilizzati in maniera più intelligente utilizzando i prodotti reali. Non era necessario nascondere lo sgombro in una polpetta, bastava coprire gli occhi e far indovinare l’alimento, sarebbe stato più reale.

Nei programmi di educazione alimentare si bendano i bambini e poi si fa assaggiare una confettura di lamponi, di ribes, oppure si fanno annusare delle erbe officinali secche, o ancora si mettono in sacchetti alimenti che i bambini indovinare utilizzando il tatto.

Ti assicuro che non sono giochi facili. 

I vostri giochini sono stati un’occasione persa, avrebbero potuto essere momenti di educazione alimentare per i consumatori, avrebbero potuto essere occasioni per insegnare ai consumatori come scegliere un determinato alimento, come meglio utilizzarlo… No, tutto è stato fatto in nome dello spettacolo, della velocità, dell’inutilità.

Purtroppo neanche la simpatia, serietà e professionalità de Davide Scabin, può salvare dalla mediocrità una trasmissione che spero non venga più ripetuta… Io, del resto, quando vorrò guardare una trasmissione di cucina continuerò a guardare “Gambero Rosso” dove cucina e sinonimo di serietà e professionalità.

Renato Ciaponi

Ex direttore della scuola alberghiera di Sondrio, attualmente in pensione.

giovedì 9 maggio 2013

STORIA DELL'ALIMENTAZIONE VALTELLINESE: il formaggio

 
E’ difficile poter stabilire quando l'arte casearia sia iniziata nel nostro territorio  anche se sono  certi gli influssi romanici nella nostra arte casearia; dal latino Caseus derivano molti termini anche dialettali utilizzati nella nomenclatura dell'arte casearia, caser, casera, cagiada, cagià...

Giulio Capitolino ci attesta poi che l'imperatore Antonio Pio mangiasse con avidità il formaggio alpino. Ma sono soprattutto i documenti storici del periodo medioevale a dimostrare che la produzione lattiero-casearia era particolarmente fiorente su quelle Alpi che erano tutte in mano ai grandi feudatarie al vescovo di Como.
Nel 1300 Vicima, Bodria, Stavello, Olza, Luniga, appartenevano ai Gaifassi di Como, Pescegallo, Tronella, Bonino,Torrenzuolo al vescovo di Como.
 
Un documento, del 15 febbraio 1545, ci ricorda, per esempio, che Pietro de Mazzi detto Bedolino lasciò tutto il suo ricco patrimonio, l'alpe Trona Soliva, al Comune di Gerola a patto che venissero celebrate sei messe all'anno in suo suffragio e il giorno dei morti venisse distribuito a tutti i presenti sul sagrato della chiesa pane, formaggio e sale, prodotti da acquistarsi con i proventi dell'affitto dell'alpeggio (ancora oggi quella richiesta viene rispettata e tutti gli anni a Gerola durante la funzione religiosa del due novembre viene distribuito pane e Bitto e due kg. di sale).
In un altro documento del 1596, registrato dal notaio di Sondrio Malacrida, si parla della preziosità  del Bitto e di un’ipoteca su una casa per un mancato pagamento di 67 brente di vino e 30 forme di Bitto.
Ma se negli alpeggi il quantitativo di latte giornaliero permetteva già in quegli anni di produrre formaggi di qualità, nel fondovalle e nei maggenghi  la produzione casearia era invece estremamente frammentaria, ogni famiglia contadina provvedeva direttamente alla lavorazione del proprio latte, con risultati quasi sempre scadenti causa soprattutto l'inadeguatezza delle attrezzature e la scarsità di prodotto da trasformare.

Il latte, veniva lavorato in caldaia di dimensioni ridotte producendo quei piccoli formaggi ancora oggi ricordati e conosciuti: Scimuut, Matusc, magnuca, stracchì, formaggi magri spesso verdognoli per la mancanza di grasso. Forse era per definire questo latte impoverito, al quale era stato tolto una quantità notevole di grasso, utilizzato per produrre il burro, che si utilizzava questa terminologia dispregiativa: Scimut potrebbe derivare da scemo, Matusc da matto e Magnuca da poco valore, mangiar di poco.
Sarà la nascita delle prime latterie a migliorare la qualità dei formaggi  prodotti sul fondovalle: la necessità di riunire il latte del paese in una latteria il cui fabbricato fosse idoneo alla conservazione del latte e farlo caseare da un ottimo casaro, divenne un obiettivo da perseguire con impegno e tenacia da parte degli organi tecnici del comizio agrario e dai vari amministratori locali anche se circondati da una mentalità individualista, da agricoltori che difficilmente potevano capire l’utilità di socializzare una materia prima importante come il latte.

Anche famiglie povere con un solo capo di bestiame, spesso formate solo dalle presenze femminili, poteva così avere burro e formaggio di buona qualità riuscendo a risolvere il grosso problema della conservazione: famiglie disagiate con un paio di bestie i ghè rivava a tirà a campà.
Con la  nascita delle prime latterie si riesce  finalmente a migliorare la qualità dei nostri formaggi, e già nei primi anni del novecento  nuove tipologie di formaggio si aggiungono alla vecchia classificazione: latteria magro, latteria grasso, latteria semigrasso.
La prime latteria tra le tante difficoltà  nasce  a Grosotto nel 1879 .e grazie , ad alcuni amministratori illuminati, alla capillare informazione del consorzio agrario e della cattedra ambulante dell’agricoltura, questa nuova forma associativa si diffonde su tutto il territorio:  le nuove latterie sono già 26 nel 1883, crescono a 33 nel 1900 per giungere a 139 nel 1934 e a 150 nel 1952 quando in ogni contrada c’ è una latteria ( nel comune di Cosio sono addirittura censite 8 latterie).

Una presenza capillare sul territorio provinciale che ha permesso un netto miglioramento della qualità dei formaggi, del reddito agricolo, ed ha svolto un ruolo sociale di primaria importanza.

Anche Talamona  diventa protagonista del nascente movimento cooperativo caseario: la prima latteria sorse in via Piantellina ( oggi Via valenti) nel 1880, voluta e fondata dall’ing, Valenti.
La latteria sociale Valenti, società anonima cooperativa, diventa subito la latteria più attiva della provincia, partecipa con i suoi prodotti all’esposizione nazionale di Milano vincendo la medaglia d’oro ed un premio di £ 1000 per le pregiate produzioni di burro e di formaggio.

Alcuni documenti parlano di commerci della latteria di Talamona   con la Grecia, l’Egitto, l’India; addirittura in una lettera del 1879 inviata al prefetto si motiva la richiesta della fermata dei treni a Talamona anche per i prodotti lattiero caseari della zona “…  che presto avrebbe preso il via una latteria sociale che avrebbe necessità di mezzi di trasporti pubblici per l’esportazione di formaggi e burri…”
Le latterie assorbono ormai tutta la produzione di latte invernale e primaverile della provincia, permettendo così al caseificio valtellinese di acquisire una precisa fisionomia ormai sempre più orientata al mercato e meno all’auto consumo.
Un grande contributo viene in tal senso dai corsi di preparazione professionali organizzati dal maestro casaro Giuseoppe Melazzini, che promuove un netto miglioramento del livello qualitativo ed una prima standardizzazione delle caratteristiche del formaggio ormai conosciuto ed apprezzato come formaggio di latteria.
Le latterie presenti capillarmente in tutti i paesi e frazioni della Valtellina ,al di là delle funzioni economiche di miglioramento del reddito agricolo , svolgono poi un’importante ruolo sociale.
Non si può infatti non riconoscere l’importante ruolo di aggregazione svolte dalle piccole latterie i cui soci partecipano attivamente e con interesse alla gestione dell’attività , momenti di crescita professionale ma anche di crescita culturale, di scambi, di idee.
La storia del formaggio ha naturalmente subito un momento di crisi negli anni settanta con l'abbandono dell'agricoltura, con la conseguente diminuzione del patrimonio bovino e la diminuzione di latte nei singoli paesi che non giustificano più economicamente la gestione di piccole latterie di paese che sono sostituite dai grossi caseifici provinciali  e dai caseifici dei grossi produttori di latte che preferiscono lavorare direttamente il loro latte.

C’è  ancora una data in questa storia che non può essere dimenticata.
Nel giugno del 1996 Bitto e Valtellina Casera riescono ad ottenere la sigla europea più ambita, la denominazione d'origine protetta (D.O.P.), marchio europeo che colloca i nostri formaggi tra i 30 più importanti prodotti caseari nazionali e ne permette una giusta valorizzazione internazionale. Riconoscimenti importanti che tutelano l'autenticità e la tradizione casearia di una provincia dove il formaggio è sempre stato protagonista,
Dietro la  DOP del il Valtellina Casera  c’è però il riconoscimento storico dell’importanza delle latterie di paese evidenziato nel  disegno del disco cartaceo presente di formaggio: un paese, una piazza e un uomo che porta il latte alla latteria.


mercoledì 10 aprile 2013

STORIA DELL'ALIMENTAZIONE VALTELLINESE- La polenta




 
Preparata con farina di mais o di grano saraceno o più spesso con le due farine utilizzate in proporzioni diverse a seconda delle zone, la polenta è stata la vera protagonista della storia alimentare della provincia di Sondrio. La preparazione della polenta iniziava alla mattina mettendo l'acqua nel paiolo, appeso ad una catena del focolare.

 Non sempre la si salava. In molte famiglie il sale si metteva solo di domenica. Quando l'acqua iniziava a bollire si aggiungeva a pioggia la farina, iniziando subito il rimescolamento per evitare la formazioni di grumi. L'usanza, rimasta ancora nelle abitudini di qualche anziano, di mettere una manciata di farina sulla superficie dell'acqua, era giustificata dalla difficoltà di capire quando l'acqua bolliva, essendo i focolai bui.

Era quasi sempre un uomo che si dedicava a questa operazione perché la preparazione richiedeva una certa fatica, dovendo tenere con una mano fermo il paiolo dondolante e con l'altra rimestare l'impasto. Il lento e regolare mescolamento durava circa un ora. "Per fa la polenta el ghe vol u lazzarun ..." per far la polenta ci vuole un lazzarone, un uomo calmo, con poca voglia di lavorare, si diceva, quasi per giustificare la perdita di tempo nella preparazione di questo alimento.

La polenta classica della provincia di Sondrio è piuttosto dura, rovesciata sul tagliere deve mantenere ancora la forma del paiolo. E' definita la polenta dei boscaioli (dei buréle). E' difficile da prepararsi perché è necessario rimestarla con cura, senza schiacciarla, usando il matterello dall'alto verso il basso. Risulta molto digeribile e stimola poca sete, caratteristiche derivanti probabilmente dai tempi lunghi di cottura.

 Sfogliando le pagine della storia possiamo trovare diverse variazioni di questo piatto che ancora oggi vengono preparate ed apprezzate in molte famiglie valtellinesi. La taragna, preparata con farina, burro e formaggio in parti uguali. Un tempo veniva cucinata solo in occasioni particolari: matrimoni, nelle speciali feste che si facevano con gli operai quando si concludevano i lavori della costruzione di una casa, nelle transumanze quando si chiedeva aiuto a parenti o amici. In queste occasioni la taragna era fatta a regola d'arte, con una parte del burro messo nell'acqua fredda, una parte durante la cottura ed il rimanente alla fine assieme al formaggio grasso tagliato a fettine.

 Ma i metodi di preparazione erano spesso diversi, in alcune zone la farina veniva tostata nel burro, in altre il burro si aggiungeva già fuso nell'acqua. La polenta taragna veniva preparata anche con il grasso di maiale fresco (sungia), con la raspa (lo strato sotto la muffa che si toglie dal formaggio grasso durante la pulizia), con la morcia (i residui della cottura del burro) o con il carnisc (pezzettini di carne residui dello strutto fuso).

 Una variante della taragna è la polenta condita con la panna, in sostituzione del formaggio. La classica polenta che veniva offerta dal caricatore ai pastori quando si scaricava l'alpeggio. Con la panna si può preparare anche un altro tipo di polenta, la pulénta 'n fiuur: la farina di mais o di grano saraceno o miscelata si fa cuocere nella panna leggermente salata. Simile alla polenta 'n fiuur è la crupa, fatta con farina di grano saraceno, pochissima farina di mais e patate, precedentemente cotte e schiacciate.

Il tutto viene cotto nella panna con aggiunta finale di pezzetti di formaggio. Il fugascin è invece una palla di polenta, con in mezzo raspa od anche formaggio. Un tempo la si appallottolava con le mani e la si faceva arrostire sulla brace o rosolare nella morchia per far sciogliere il contenuto. La pulénta concia si prepara invece dividendo a cucchiaiate o a fette la polenta, cospargendola di formaggio grattugiato e annaffiando il tutto con strutto fuso o burro aromatizzato con cipolla.

"Deve sempre avanzare polenta, la polenta non si deve consumare tutta calda" diceva un detto popolare. Infatti l'utilizzazione della polenta fredda ha permesso la realizzazione di diverse ricette che ancora oggi potrebbero essere recuperate. Con le fettine di polenta fatte ricuocere nel latte generalmente allungato con acqua si preparava la classica cena della sera o la colazione del mattino. (scota mus).

l pitutt era invece una torta fritta nello strutto, composta da patate lesse, fettine di polenta nera e fette di formaggio. Si mangiava con insalata verde. Infine i rustii fette di polenta e di patate rosolate nel burro o nello strutto. Ma la polenta si mangiava anche da sola (pulenta santa). Si diceva, poi, che la polenta si poteva mangiare con due mani o con una mano. Mangiare polenta con una mano significava povertà, voleva dire mangiare solo polenta, senza companatico. Nell'altra mano si teneva il formaggio o i prodotti della macellazione del maiale.