La magia dei sensi a
Morbegno sabato 18 e domenica 19 ottobre durante la mostra del Bitto
Si abbassano le luci,
una musica di sottofondo accompagna Loretta che si muove leggera dietro i
tavoli e benda tutti i partecipanti con tele colorate. Davanti alle persone bendate è messo un piattino,
con dell’insalata tagliata finemente e sopra due pezzetti di Bitto, uno giovane
e uno vecchio. Una voce fuori campo introduce il racconto della lavorazione del
Bitto:
“Tutto inizia lì, negli alti pascolo degli alpeggi valtellinesi dove le mucche possono respirare a pieni polmoni l’aria pura e frizzante della montagna e pascolare nei prati ricchi di erba fresca e fiori.
Il
tintinnio echeggiante dei campanacci si diffonde per tutto il territorio mentre
le vacche si muovono lentamente cercando i ciuffi d’erba più preziosi, bevendo
l’acqua pura delle sorgenti, nutrendosi della ricchezza di questi pascoli
incontaminati.
Gli
odori dell’erba, dei fiori, degli animali si fondono in un’armonia che il vento
trasporta per tutto l’alpeggio.
Tutto
inizia lì e termina nella produzione di un formaggio unico: il Bitto.”
Poi tutti sono invitati a porre le mani nel piatto, e prendere il primo pezzetto di formaggio, a toccarlo, ad annusarlo, a metterlo in bocca per scoprire l’odore di latte, di erba, per percepire in bocca la morbidezza e la dolcezza del Bitto di settanta giorni.
“Rimettete le mani nel piatto e in mezzo all’erba, pardon all’insalata, troverete un altro pezzetto di formaggio. E’ più duro, rompetelo ancora in due pezzetti e sotto il naso sentirete odori più intensi, di bosco, di essenze di montagna, di fumo… e adesso in bocca: la morbidezza e la buttirrosità tipiche del formaggio giovane si sono trasformate in qualcosa di più strutturato che richiede una masticazione energica, ma poi a contatto con la saliva ecco che si scioglie lentamente regalandoci sensazioni di dolcezza che si fondono con una sapidità complessa ma ben equilibrata.
La saliva continua a
sciogliere il formaggio, liberando diversi
aromi che nuovamente ci portano lassù dove nasce il Bitto, dove non si pratica la concimazione chimica, dove
le vacche bevono l’acqua pura delle sorgenti, brucano l’erba di montagna ricca
di essenze, e dove i casari lavorano un latte prezioso, appena munto,
freschissimo, ancora caldo, vivo, naturale.”
Loretta accarezza con una piuma il viso dei partecipanti togliendo la benda. La musica aumenta. Sono proiettate immagini di vita nell’alpeggio. Loretta inizia a ballare e l’immagine del suo corpo si sovrappone alle vacche al pascolo, alla mungitura, al latte nella caldaia, al fuoco, alla cagliata che si sta formando nella caldaia.
La fusione delle
immagini riesce a creare emozioni particolari. Un applauso spontaneo accompagna
Loretta che scompare dietro lo schermo.
L’intensità della
luce aumenta, due ragazze portano un nuovo piatto: un orzotto mantecato con
Bitto e mela i cui colori vogliono rappresentare il fuoco, la cagliata rotta in
granelli di riso, e la nera caldaia. I commensali assaporano lentamente il
contenuto del piatto, le luci si abbassano nuovamente ed ecco Loretta, avvolta da
leggere stoffe colorate, ritorna tra i tavoli muovendo le tele con grazia,
cercando di ricordarci i colori della vita in alpeggio:
l’azzurro del cielo,
il verde dell’erba, il giallo e rosso del fuoco della legna che brucia, il nero
della caldaia, il grigio del fumo, il bianco del latte e il giallo del Bitto.
Nuova
creazione dallo chef Egidio Della Valle: in un angolo di un piatto quadrato,
una cialda contenente una fonduta di Bitto è posata sopra alcuni steli di erba
cipollina e un fetta di carota stilizzata a mo’ di fiamma. Una sottile fetta di
pane di segale è appoggiata sopra la cialda. Il piatto quadrato non è stato
scelto casualmente, vuole rappresentare il calecc, così come la posizione della
cialda vuole ricordare che il focolare è sempre in un angolo del calecc. E il
pane di segale ha lo stesso colore del telo utilizzato per estrarre la cagliata
e vuole rappresentare il telo del calecc.
Il
racconto continua.
“la camicia arrotolata sulle braccia, eccolo con la testa nella caldaia, le mani che tengono un telo immerse nel liquido ancora caldo, la cagliata che è raccolta nel telo con gesti sicuri, consolidati da un’esperienza tramandata nel tempo. Il viso quasi a contatto con il serio, l’unione dei quattro angoli del telo e poi con uno scatto il fagotto viene estratto, appoggiato per qualche secondo sula masna per la prima sgocciolatura prima d essere messo nella fascera di legno. Con gesto rapido il telo che contiene la cagliata viene messo sullo "spersore" e quindi all’interno delle fascere di legno. Un primo schiacciamento a mano per non creare vuoti nella pasta, e poi per ventiquattro ore le forme vengono sottoposte a pressione per favorire l'espulsione del siero. Ma il lungo lavoro del casaro non finisce qui, occorre portare il formaggio appena fatto alla casera, effettuare la salatura.
E lì nel silenzio della
casera, vicino alle forme dei giorni prima che riposano, le mani del casaro
dosano il sale che viene sparso sulle forme, ora sull'una ora sull'altra
faccia, oltre che sullo scalzo. Ecco adesso il formaggio è pronto per
iniziare quella maturazione che si completerà nelle cantine di fondovalle”.
Ultima emozione. Il corpo di Loretta, chiuso in un sacco di tela grigia, si agita dolcemente davanti allo schermo dove le immagini della lavorazione del formaggio si susseguono. Il corpo si muove lentamente come fosse l’azione dei microrganismi presenti nella cagliata, chiusa nel telo. Poi piano piano, il corpo di Loretta esce dalla tela e finalmente il bittto è pronto per la maturazione in casera.